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Lo stato di emergenza sui migranti è il “petardo” che Meloni ha lanciato a Bruxelles

naufragio migranti largo tunisia

Da molto prima della tragedia a Cutro Ursula von der Leyen ne ha dette di tante e di tonde, sulla necessità di una “soluzione comune” e sulla disponibilità a “considerare con favore” le istanze del governo italiano.

Pare non sia vera, la faccenda della “ammuina” borbonica sulle navi in procinto di incrociare vele nemiche e pare appartenere ad una mistica tutta italiana per cui a Nord devi raccontare aneddoti su quanto al Sud siano teatranti ed al Sud devono raccontare quanto i nordici siano ostrogoti. Come nel caso dello “strano oggetto a forma di chitarra” che i franco-piemontesi avrebbero trovato in reggia a Caserta e che pare fosse un bidet a loro ignoto.

Tuttavia questi racconti hanno un pregio al di là della loro dubitabilità storiografica: sono simboli, cioè termini di raffronto ottimi per indicare in iperbole come le azioni dei sistemi complessi a volte debbano mettersi in maquillage delle cose clamorose. Pensiamo al concetto di “emergenza” ad esempio. Nel novero delle cose che un governo può squadernare sul tavolo della sua azione c’è da sempre ma è stato con il Covid che noi gente da passeggiata col cane ai giardinetti abbiamo imparato a conoscerlo.

Le tre definizioni di emergenza: per noi, Meloni e per Bruxelles

Emergenza nel mainstream: situazione per la quale un governo che passa un guaio grosso per grossissimi guai naturali o umani può scavalcare le verbose Camere a suon di legiferati brevi e urgenti. Emergenza in punto di Diritto: con decisione del Cdm si ricorre all’articolo 24 del Codice della Protezione civile sulla base di alcuni requisiti definiti nell’articolo 7: “Emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo”.

Emergenza migranti nell’ottica di Giorgia Meloni fresca di viaggio in Etiopia e lancio del Piano Mattei: precondizione con la quale, con una prerogativa di competenza nazionale si fanno alzare le antenne ad un’Europa dolosamente sorda che sul tema specifico non ha voce in capitolo. Ma che su quello generale ne ha e come, solo che preferisce far finta di non averle. E lo fa usando i paesi di Visegrad come movente ed una fisiologica propensione alle “camarille” continentali come motivo.

Ovviamente in questo terzo step c’è un errore grosso: non è una precondizione ma una post-condizione. Cioè una cosa che Meloni ha deciso di fare dopo aver capito che in quell’Europa che lei sta lusingando da mesi per togliersi dalla spalla la forfora sovranista non ci sono orecchie per fare del problema migranti una questione corale. C’è un nome di città per ogni argine cinico alla serena consapevolezza che gli sbarchi e le tragedie che abitano su quei natanti sono faccenda di tutti: Visegrad per quelli che non vogliono, Dublino per quelli che non possono, Bruxelles per quelli che vogliono e possono, ma solo con i virgolettati da dare alla agenzie. Poi c’è Adis Abeba per quelli che vogliono ma a modo loro.

Sul problema dall’Ue solo parole

Da molto prima della tragedia a Cutro Ursula von der Leyen ne ha dette di tante e di tonde, sulla necessità di una “soluzione comune” e sulla disponibilità a “considerare con favore” le istanze del governo italiano. Poi il nulla, come a sottolineare ove mai ve ne fosse bisogno che l’Ue è ancora un’entità che vive di enunciazioni sui problemi scomodi per i paesi “cocchi” e di arcigne determinazioni su quelli per i paesi “figliastri”.

E La Meloni questo doppio binario lo ha intravisto esattamente quando ha deciso di mettersi in scia di Mario Draghi e puntare più ad essere supina su rotte altrui che a fare manovre per rotte sue: non eravamo così iperatlantici dai tempi della seconda rata del Piano Marshall ma lì avevano molte più pezze al culo e tanti grazie da dire. Poi però la questione migranti è diventata guaio e guaio grosso.

Il mondo ha avuto uno dei suoi periodici flash di maggior impazzimento e i flussi sono diventati ondate, con un governo sovranista stretto fra l’obbligo di amministrare l’etica della cose e la necessità di concertarne l’amaro logos. E sono stati guai perché nessun sistema complesso nazionale ha i mezzi per affrontare da solo faccende come questa. Non con la primavera inoltrata che rende il mare piatto, il cielo blu e le ecatombi nelle zone Sar quotidiane.

Le reazioni “caute” in Europa

Perciò sai che c’è? Ti butto fra le gambe l’emergenza, che è tra l’altro parola iconica che sottintende un grado di attenzione massima sul caso ma che non emenda da una linea politica non proprio “solidale”. La riprova di quanto Meloni abbia giocato a fare come gli sfigati che non avendo amici buttano i petardi sotto le gonne delle ragazze che non se li filano? Basta cambiare fronte e studiare le parole blande ed attendiste di Anitta Hipper, portavoce per gli Affari Interni di Bruxelle durante il briefing con la stampa: “La Commissione Europea ha stretti contatti con le autorità italiane per vedere che cosa implica lo stato di emergenza”.

Come se non lo sapessero. “La Commissione prende atto della decisione del governo italiano di dichiarare lo stato di emergenza, che è una competenza nazionale”. Cioè lì L’Ue non ha voce in capitolo neanche per decidere il font da usare nei documenti. “A quanto ne sappiamo è stata provocata dalla situazione migratoria particolarmente difficile che l’Italia sta affrontando”. E con quel mirabolante “a quanto ne sappiamo” proclamato dalla portavoce di un sistema complesso di governo fatto da 27 Stati sovrani sono scattati gli applausi a Zelig.

Poi la chiosa arcigna ma da mani legate: “Dovremo guardare esattamente ai dettagli delle misure, prima di poter commentare”. Già, commentare, perché sul tema emergenza nazionale l’Europa può solo dirci la sua ma non darci una rotta. E la Meloni, che con i legiferati normali proprio non ce la fa, li ha voluti stuzzicare. Perché già da molto prima della cena di Macron e Scholz con Zelensky a cui non la invitarono ha capito che c’è gente con cui puoi ragionare e gente con cui per farti ascoltare devi fare “ammuina”.

Come i Borboni, che però poi alla fine a Gaeta consegnarono il regno ai piemontesi.