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Palermo, uccisa figlia di un boss perché voleva divorziare

uccisa figlia di un boss

"Meglio una figlia morta che separata": è questa la motivazione che ha spinto un boss della mafia a uccidere sua figlia

Lia Pipitone uccisa perché voleva essere libera. Etichettata in quanto “figlia di un boss”, lei voleva togliersi di dosso quel marchio. Ha avuto il coraggio di ribellarsi alla mafia, di diffidare dei cattivi che vogliono dominare con la forza, soggiogando i “nemici”. Ma si sa che correre questo rischio non è privo di conseguenza. Lia è stata tradita dal suo stesso padre e così ha perso la vita. Una decisione non accettata dal padre padrona le è costata la vita.

Uccisa per punizione

“Meglio una figlia morta che separata”. Un orgoglio paterno folle e capace di far scemare qualsiasi forma d’amore. In un clima di dominio possessivo e malato, con totale anaffettività è stata uccisa Lia Pipitone. Figlia di un boss della mafia, il potere ha fatto morire anche lei. Quel padre non poteva permettersi di perdere l’onore, la faccia, la dignità. Ma ha preferito perdere la figlia. Uccisa perché “libera”. Gli assassini sono stati condannati a 30 anni di galera. Una pena esemplare per far fronte alle violenze stringenti e soffocanti, maniache e provocatorie perpetrate per mano della mafia.

Antonino Pipitone avrebbe dato l’assenso per l’uccisione della giovane figlia: tutto pur di scongiurare il disonore della famiglia e la brutta tegola che avrebbe infangato il clan di appartenenza del pater familia. Una punizione esemplare per una figlia ritenuta colpevole poiché invaghitasi di un altro uomo. Il padre non ha accettato la relazione extraconiugale della figlia, così ne ha ordinato la morte. Lui non si è sporcato le mani di un crimine atroce, ma rimane il mittente perverso di un delitto malato.

Così Lia Pipitone venne uccisa a Palermo il 23 settembre del lontano 1983 durante una rapina. Una messa in scena orchestrata in ogni dettaglio, un escamotage per sviare le indagini, depistando la ricerca attorno al clan mafioso.

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La condanna

Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia sono gli assassini della giovane figlia del boss. Su di loro grava una condanna di 30 anni di reclusione, unitamente all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale. Ai due mafiosi è stata concessa la libertà vigilata per tre anni, ma solo dopo aver espiato la condanna.

Alle due parti civili, padre e marito della figlia è stata riconosciuta una provvisionale di 20mila euro ciascuno. Sono criminali a loro volta, è dalla loro mente malata che è stato avviato il piano che ha portato alla morte di Lia. Non hanno infierito fisicamente i colpi, ma sono i mandanti di un delitto familiare fuori dal normale. I soldi non rendono giustizia a una donna che ha perso la vita solo perché ha avuto il coraggio di dire “no” alla mafia, seguendo i suoi sentimenti e dando ascolto al suo cuore.

Lia, morta per amore

Lia Pipitone fu uccisa il 23 settembre 1983, a causa di una sparatoria seguita a una rapina. Tutta una finzione secondo gli investigatori. Dopo anni di indagini, i collaboratori di giustizia hanno individuato colpevoli e moventi del tragico caso di mafia.

Dei pentiti hanno rivelato che a volere la morte della giovane era il padre della stessa, Antonio Pipitone, boss dell’Acquasanta. “Mio fratello Andrea, all’epoca responsabile della famiglia mafiosa di Altofonte, mi ha riferito che il padre di Lia aveva deciso la punizione della donna, perché non voleva essere criticato per questa decisione incresciosa“. A riferirlo è stato il pentito Francesco Di Carlo. I sospetti furono così confermati e l’inchiesta venne riaperta dopo diversi anni. Antonio Pipitone nel frattempo era morto. Così sono stati condannati i mafiosi commissionati dal padre di Lia, Galatolo e Madonia.

Anche Simone Di Trapani, amico di Lia, venne ucciso il giorno dopo l’assassinio della figlia del boss. Cadde dalla finestra del suo appartamento: un volo nel vuoto dal quarto piano. Un suicidio che non convinse mai gli inquirenti.