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Perché ho deciso di pubblicare il video della funivia del Mottarone e non la foto di Eitan prima del crollo

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Difendo il mio dovere di giornalista di pubblicare il video del disastro della funivia del Mottarone perché spiattella in faccia a me e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria.

Come tutti i direttori di giornale, nella giornata del 16 giugno mi sono dovuto interrogare se il video del disastro della funivia del Mottarone diffuso dal Tg3 andasse ripubblicato e, dopo l’insorgere delle polemiche, se non fosse necessario rimuoverlo, scusandoci con i lettori.

Ho subito scartato questa seconda ipotesi perché sarebbe stato come voler fare la “verginella” dopo aver partecipato a un’orgia. Quella decisione andava presa prima, quando dalla redazione mi avevano chiamato per sapere se procedere oppure no, e poi la scelta, ponderata, andava mantenuta e difesa. E non ripensata quando è montata, sui social network, la caccia alla streghe di chi, dopo aver visto il video, criticava chi lo aveva pubblicato, sostenuti da un’inutile comunicazione della Procura di Verbania che, dopo non essere riuscita a tutelare una prova agli atti dell’indagine, ne richiedeva la non pubblicazione.

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Prima di dare il mio consenso alla pubblicazione di quel video su Notizie.it ho ragionato, con la velocità che il giornalismo digitale richiede, su come ci si era comportati in passato nel giornalismo e, così, mi sono ricordato delle immagini, agghiaccianti come quelle mostrate nel video della funivia, delle persone che dalle Torri Gemelle preferirono lanciarsi nel vuoto per avere almeno il diritto di scegliere come morire.

Vittime delle Torri Gemelle

Mi sono ricordato i vari video e la foto, divenuta simbolo di quel disastro, del camioncino della Basko fermo pochi metri prima del dirupo causato dal crollo del ponte Morandi.

Anche quelle immagini, così come contestato del video della funivia del Mottarone, cosa aggiungevano alla comprensione dei fatti? Innanzitutto è, come detto, una prova agli atti della Magistratura e pertanto ha evidentemente una sua rilevanza nella ricostruzione di quel disastro, in cui sono morte 14 persone. Quel video è, infatti, una testimonianza diretta di quanto accaduto e pertanto, se è utile agli inquirenti per ricostruire, perché non dovrebbe essere altrettanto utile ai lettori per capire?

Per capire innanzitutto quali sono le conseguenze dell’incuria che ciascuno di noi può applicare nello svolgimento del proprio lavoro o delle proprie attività quotidiane. Parliamoci chiaro: quello che è successo alla funivia della Mottarone non è una tragedia, ma la conseguenza dei comportamenti scorretti mantenuti dai lavoratori e, probabilmente, anche dalla proprietà della funivia che, un po’ per incuria, un po’ per profitto, hanno aperto un impianto che, alla lacune di quanto accaduto, sicuramente doveva essere chiuso.

Allo stesso modo di come il crollo del ponte Morandi fosse conseguenza di un inefficiente sistema di manutenzione delle strade, questo disastro è frutto di precise responsabilità che la Magistratura accerterà. Il primo, però, è ormai certo che sia da attribuire alle grandi società e alla loro ingordigia, mentre questo più probabilmente all’incuria di semplici dipendenti.

Oltre all’evidenza che dopo un anno e mezzo di incertezze e paure, in cui da un momento all’altro ci siamo riscoperti vulnerabili e incapaci di domare la natura, siamo stanchi di riscoprire ogni volta che la morte può entrare all’improvviso nella nostra vita, a darci fastidio di quel video è lo spiattellarci in faccia il rischio delle nostre azioni commesse con superficialità e negligenza.

Quante volte ciascuno di noi, nello svolgere il proprio lavoro o altre attività, si è detto “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E così il medico rimanda a casa il ragazzo di 24 anni che accusa un dolore alla gola e alla testa, che poi muore per una leucemia fulminante; il poliziotto non prende la denuncia della donna che ha paura dell’insistenza dell’ex, che poi la uccide; il muratore aggiunge poca calce al cemento per finire prima il lavoro e poi, alla prima scossa di terremoto, la casa crolla.

Noi stessi rimandiamo il tagliando dell’auto presi da altri impegni e magari causiamo un incidente, sporgiamo troppo il vaso dal balcone, pensando “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. Poi le cose succedono, all’improvviso, da un momento all’altro, una delle prime domeniche di sole dell’anno, all’indomani delle tanto agognate riaperture dopo un anno e mezzo di lockdown alternato. Ma ormai è troppo tardi.

Allora sì, difendo il mio dovere di giornalista di spiettellare in faccia a me stesso e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria, la pericolosità di quel “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E se questo servirà a sensibilizzarci affinché la prossima volta, prima di pronunciare quella frase, ci pensiamo un po’ su e magari ricontrolliamo meglio il nostro, ci atteniamo alle regole e ai protocolli, allora avrò assolto due volte al mio compito di giornalista: avrò informato, affinché non ricapiti.

Soltanto qualche giorno prima, il 26 maggio, mi era stata posta dalla mia redazione una domanda molto simile: “Hanno divulgato la foto del bambino che si è salvato da quel disastro prima che la funivia crollasse. Che facciamo, la pubblichiamo?”. In quel caso risposi di no, pur rinunciando a qualche lettore, perché quello era un inutile accanimento, una perversa bramosia di entrare nell’intimo delle persone, quella era la morte del giornalismo. Ma quella foto, a differenza del video del crollo, non aggiungeva nulla alla ricostruzione dei fatti (e infatti non mi risulta sia negli atti processuali, come il video) e soprattutto non dimostrava nulla, se non che quel bambino era felice prima che l’incuria di noi grandi si abbattesse su di lui.