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Coronavirus, l'errore più grande di Conte è stato fidarsi di noi

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L'ultimo decreto annunciato da Conte potrebbe essere il colpo mortale per la nostra economia. E, forse, tutti noi avremmo potuto evitarlo.

Dopo una nuova, lunga giornata segnata da dati drammatici sul piano dei contagi e dei morti da coronavirus, nella tarda serata del 21 marzo 2020, Giuseppe Conte irrompe con il suo terzo discorso in pochi giorni nelle case degli italiani. Al di là delle novità annunciate però, il premier appare fin da subito diverso da quello visto nei precedenti interventi.

Coronavirus, il discorso di Conte

Facciamo un passo indietro e torniamo all’11 marzo, quando Conte annuncia la chiusura di tutte la attività commerciali non essenziali, causa di inevitabili assembramenti. Nel suo intervento il premier fa leva, energicamente e sin da subito, sui sentimenti. Quelli attorno ai quali ci si stringe in un momento come questo: lo spirito di sacrificio, il senso di gratitudine e l’orgoglio nazionale. Conte spinge sull’emotività ringraziando i medici, gli infermieri ed esaltando l’abnegazione dei cittadini di fronte alla crisi:

“L’Italia, possiamo dirlo forte e con orgoglio, sta dando prova di essere una grande nazione, una grande comunità unita e responsabile. Io ho una grande convinzione, vorrei condividerla con voi: un domani ci guarderanno come esempio positivo di un Paese che grazie al proprio senso di comunità è riuscito a vincere la sua battaglia contro questa pandemia”.

Dieci giorni dopo, lo scenario appare radicalmente cambiato. I contagi e le vittime nel Paese sono tragicamente aumentati, così come le persone in giro per le città e fuori dalle proprie abitazioni. Gli effetti che si attendevano dalle prime misure, sembrano ancora lontani. Così diceva Conte, sempre l’11 marzo:

“Il risultato di questo nostro grande sforzo potremo vederlo solo tra un paio di settimane. Se i numeri dovessero continuare a crescere – cosa niente affatto improbabile – non significa che dovremo affrettarci a varare nuove misure. Non dobbiamo fare una corsa cieca verso il baratro”.

Due settimane non sono nemmeno passate e Conte è costretto ad arrendersi firmando un decreto che sa di colpo di grazia a un Paese dall’economia già a pezzi. È l’ultimo decreto che avrebbe voluto firmare. La figura che ci si pone davanti è quella di un leader stanco e meno lucido delle volte precedenti. Stavolta non c’è spazio per preamboli, citazioni, frasi fatte, ringraziamenti e celebrazioni. I sette minuti del discorso di Conte hanno dal primo momento il sapore di uno schiaffo in pieno volto, di una verità sbattuta in faccia che troppi italiani continuano però esecrabilmente a ignorare:

“Buonasera a tutti. Fin dall’inizio ho scelto la linea della trasparenza, ho scelto di non minimizzare. Di non nascondere la realtà che ogni giorno è sotto i nostri occhi. Ho scelto di rendere tutti voi partecipi della sfida che siamo chiamati ad affrontare. È la crisi più difficile che il Paese sta vivendo dal secondo dopoguerra. In questi giorni durissimi siamo chiamati a misurarci con immagini e notizie che ci feriscono. La morte di tanti concittadini è un dolore che ogni giorno si rinnova. Questi decessi per noi, per i valori con cui siamo cresciuti, non sono semplici numeri. Quelle che piangiamo sono persone, sono storie di famiglie che perdono gli affetti più cari. Le misure fin qui adottate, l’ho già detto, richiedono tempo. Sono misure severe, ne sono consapevole. Ma non abbiamo alternative. Dobbiamo resistere”.

Conte va subito al dunque e prosegue rivolgendosi, con chiarezza e per la prima volta, a chi non fa la propria parte favorendo la diffusione del virus:

“Il nostro sacrificio di rimanere a casa è peraltro minimo se paragonato al sacrificio che stanno compiendo altri concittadini. Negli ospedali, nei luoghi cruciali per la vita del Paese, c’è chi rinuncia e chi rischia molto di più. Penso ai medici, agli infermieri, alle Forze dell’Ordine, alle Forze Armate, agli uomini e alle donne della Protezione Civile, ai commessi dei supermercati, ai farmacisti, agli autotrasportatori, ai lavoratori dei servizi pubblici e anche ai servizi dell’informazione. Donne e uomini che non stanno semplicemente andando a lavorare, ma compiono ogni giorno un atto di grande responsabilità verso l’intera nazione”.

Il premier tradisce (comprensibilmente) stanchezza. Così sarebbe per il leader di qualunque fazione politica si trovasse al suo posto, catapultato a gestire una tale emergenza. Una sensazione che trova conferme quando, ancora una volta, Conte si vede costretto a ribadire l’inutilità di riversarsi in massa nei supermercati. Nel suo discorso viene meno l’empatia, il tono si appiattisce e ai consueti appelli alla fiducia e all’unione d’intenti si accompagnano, per la prima volta, note di insofferenza e velata irritazione.

Alcuni ritengono la decisione del governo sacrosanta e basta. In molti la considerano giusta ma tardiva. Corretta o sbagliata, puntuale o meno, resta un interrogativo: se avessimo tutti, sin dall’inizio, rispettato le regole, rinunciando ad aperitivi, feste di laurea, fughe di massa e corse al parco con gli amici, saremmo davvero arrivati fino a questo punto?