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Coronavirus, far ripartire la produzione con le scuole chiuse: il paradosso italiano

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Attesa la Fase 2 per contrastare il coronavirus: obiettivo far ripartire la produzione. Ma l'Italia è l'unico Paese dove le scuole restano chiuse.

La scuola rappresenta le fondamenta della società. Eppure, l’emergenza coronavirus sembra averlo fatto dimenticare un po’ a tutti gli italiani. A differenza di altri Stati. Tant’è che viene da chiedersi: “Ma perché in Italia si pensa di riaprire tutto, eccetto le scuole?”. In Danimarca, da mercoledì 15 aprile, si ripartirà. Ovvio, non a pieno regime. Due scaglioni per poter mettere appunto tutte le misure di sicurezza per gli istituti e tutelare al meglio i cittadini del futuro, gli studenti. Certo, la Danimarca – numeri alla mano – non ha dovuto fronteggiare un’emergenza coronavirus come nel nostro Paese; per gli scandinavi 6496 positivi e 299 decessi. Bene, allora ecco un altro esempio. A noi italiani ben più vicino; la Francia di Macron. Il primo ministro transalpino ha annunciato che da maggio – anche in questo caso a scaglioni – le scuole ripartiranno. Perché ci sono fasce più deboli che potrebbero andare alla deriva. La Germania farà lo stesso: tra un mese, sempre con tutte le accortezze del caso, si tornerà in classe. Perfino la Spagna potrebbe riaprire i battenti delle scuole a giugno.

I problemi delle scuole chiuse

La scuola è un volano di socialità. Ed è anche un modo per far ripartire la produzione del proprio Stato. Esaminiamo dei possibili eventi familiari. Poniamo il caso di due genitori che abbiano, come attività commerciale, una libreria: da martedì 14 aprile possono tornare a lavoro. I loro figli, invece, devono restare a casa perché non possono uscire. La coppia sarà costretta a dividersi e magari fare in uno il lavoro di due o più persone. Altro esempio: il 4 maggio potrebbe arrivare il tanto agognato via libera per poter – con tutte le precauzioni del caso – far ritorno alla normalità. Due genitori, dipendenti di una fabbrica a Milano – che non possono lavorare in “smart working” perché trattasi di lavoro manuale da fare in loco -, rientrano presso le strutture lavorative. A casa, invece, restano i figli. Perché a scuola non si può tornare. Come risolvere? Potreste rispondere: “Chiama una baby-sitter”.

Bene, a un reddito familiare di 2.400€ (poniamo il caso di una coppia con due stipendi da 1.200€) bisogna dedurre tutti i costi fissi mensili (mutuo o affitto, cibo, trasporti) e lo stipendio di una persona che si prenda cura dei propri figli (e rinunci alla sua di quarantena). Nonostante i suddetti genitori abbiano pagato – attraverso tasse e deduzioni che mensilmente si registrano sul proprio stipendio – un servizio statale chiamato scuola. Che, è bene ricordarlo, si tratta di un obbligo costituzionale (art.34). Risponderete: “C’è il bonus baby-sitter”. Certo, 600€ (una tantum o mensili?) erogati dall’Inps dovendo tener conto di Isee e macchina burocratica per poter essere rimborsati. E, per poter usufruire di tale somma, bisognerebbe registrare la lavoratrice. Quindi, altri costi a carico della famiglia. Un cane che si morde la coda. Insomma, gli italiani – che hanno la fortuna di essere genitori – devono mettere mano al portafogli. È bene sottolineare come tutti i Paesi del mondo stiano lavorando alla fase due in contemporanea alla prima.

Il paradosso italiano

In Italia, invece, sul come far ripartire la produzione si è iniziato a ragionare ufficialmente venerdì 10 aprile con la nomina di una commissione diretta dal super manager Vittorio Colao. Eppure, si era intuito, a inizio marzo, che la quarantena fosse un modo per difendersi e riordinare le idee. L’unica certezza, oggi, è di dover convivere con il virus finché non arriverà un vaccino. E non si può chiedere agli studenti di rinunciare alla scuola. Verrebbero meno tutti i fondamenti su cui noi adulti abbiamo costruito la nostra “forma mentis” e la nostra socializzazione. Perché è bene far presente che la riapertura della scuola è paventata – allo stato attuale – al prossimo settembre. Forse.

Non è una misura restrittiva per evitare un contagio tra i più piccolini. Forse, potrebbe essere passabile per gli asilo nido (ma è anche vero che casi di Coronavirus nella fascia 0-3 anni si possono contare sulle dita di una mano). Difficile comprendere perché bar e ristoranti possano riaprire seguendo le regole del distanziamento sociale e le scuole no. Il problema sono le “classi pollaio”? Bene, si distribuisca meglio il numero degli alunni e si dia lavoro ai tanti precari in giro per l’Italia. Con una semplice mossa si farebbe scacco matto: i genitori potrebbero andare a lavoro senza doversi preoccupare di come organizzarsi con i figli; questi ultimi tornerebbero a scuola e potrebbero riprendere appieno le proprie attività sociali; lo Stato potrebbe stabilizzare tantissimi precari in un periodo di forte crisi economica.

Noi restiamo a guardare gli altri ripartire, proprio mentre i nostri consumi calano a picco e Confcommercio ricorda al Governo di dover pensare concretamente a far ripartire la produzione. Ma sarà una ripartenza zoppa già di per sé. Con i più piccoli (e più forti) a casa e i genitori (più a rischio coronavirus) in giro. Magari uno alla volta. O costringendoli a dover usufruire di aspettative, ferie e permessi speciali. Solo perché la scuola deve restare chiusa. Un paradosso tutto italiano che sembra interessare solo a chi, per sua fortuna, ha figli e lavoro.