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Nuovo Dpcm, l'ennesimo "decretino" in attesa della battaglia elettorale

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Il nuovo Dpcm - tutt'altro che tirannico - non è altro che un atto dovuto, un piccolo adeguamento ai comportamenti già praticati da molti.

S’è perso il conto dei ritocchi ai decreti anti Covid che Conte firma da fine febbraio: una quindicina, tra integrazioni e ordinanze. Non avrebbe potuto essere altrimenti visto che scienza e politica sono davanti a un virus nuovo, ancora sconosciuto nel suo corso, per cui manca il vaccino e su cui non c’è al momento una letteratura medica documentata. Si sta studiando anche la risposta anticorpale: secondo una ricerca italiana appena pubblicata su Global Health, non solo chi l’ha avuto non sviluppa immunità ma è addirittura predisposto a una ricaduta peggiore. Gli studi richiedono anni di esperimenti non rinviabili se vogliamo che abbiano i caratteri dell’obiettività. Impossibile per chiunque non navigare a vista, controllando ogni tanto la bussola dei numeri: se in Italia – a un mese esatto dall’inizio della fase 3 – contagi e vittime restano sotto controllo, nel resto del mondo non si può dire altrettanto. E, in un pianeta sempre più interconnesso, basta niente per tornare a cifre da strage.

Molti stati appena usciti dal lockdown hanno già richiuso i battenti per nuovi focolai che, come da noi, proseguono a scoppiare a macchia di leopardo: California, Australia, Filippine, Iran, Spagna e Marocco (alla faccia di chi vuole il caldo nemico del virus). Lo dimostra l’elenco del ministro Speranza che ferma i voli da 13 paesi, tra cui il Brasile. Il Belgio ha seguito le indicazioni Ue e ne ha messi in lista 15; l’Ungheria di Orban ha esteso l’alt a tutta l’Africa, il Sud America e l’Asia (tranne i big Cina e Giappone). Il blocco degli ingressi dovrebbe rallegrare nazionalisti e populisti, a cui piace chiudersi a riccio nei propri confini. Al tempo stesso però gli piace anche una non meglio decifrata “libertà”, che sarebbe messa a rischio dal quel poco che resta dei dispositivi di contrasto all’infezione. Ci siamo scordati che fino allo scorso 14 giugno eravamo barricati in casa, nel panico: non è chiaro, nel persistente contesto di allarme, di quale facoltà o licenza in più vorrebbe godere l’opposizione visto che tanti ormai escono dimenticando la mascherina o indossandola come un accessorio, e non s’è più avuta notizia di multe a cittadini e gestori. Dalle resse documentate finora in spiagge, lungomari e bar non si respira francamente quest’aria di regime.

Il nuovo Dpcm è davvero mini e contiene aggiustamenti solo in senso concessivo, emanati come “atto dovuto” per la semplice scadenza di quelli precedenti. Nient’altro che un adeguamento ai comportamenti già praticati da molti. Via le mascherine all’aperto, a meno che non ci si trovi a meno di un metro da uno sconosciuto: una soluzione anticipata unilateralmente dal governatore Fontana, in maniera un po’ paradossale dato che in Lombardia continuano a registrarsi metà dei positivi rilevati ogni giorno da Protezione civile e Iss. Basta anche ai guanti, pure al chiuso: ora si è scoperto che sono dannosi.

Torneranno i bagagli a mano in aereo e sui treni potremo sederci a meno di un metro, nei posti in fila verticale. Residui di limitazioni dunque, di cui non si coglie né la dimensione liberticida imputata dal centrodestra né la tutela sanitaria promessa dalla maggioranza. La categoria filosofica dei “congiunti” ha fatto saltare ovunque le distanze con i nostri amici, conoscenti e colleghi, autorizzati a loro volta a intrattenersi vis a vis con i loro: una catena incontrollata di contatti, specie con l’esodo d’agosto. Norme che, per non ridurre i diritti costituzionali, riducono l’efficacia fattuale di termoscanner, amuchine e sanificazioni prolungate giusto pro forma.

L’unica chiusura estesa per intero, restando formalmente vietati gli assembramenti, riguarda discoteche, fiere e sagre. Per queste ultime due però – fulcri dell’estate italiana – regioni e comuni potranno sempre valutare in autonomia delle deroghe in base alla situazione locale. Un’altra misura tutt’altro che tirannica, e che affida anzi fin troppo alla responsabilità di enti e abitanti del territorio. Ma ovunque ci si volti è un campo minato. Non si possono gettare all’aria i sacrifici fatti dagli italiani in questi mesi, ma neanche chiedergliene molti altri. Da una parte si pretende dal governo coerenza e omogeneità nelle disposizioni, dall’altra s’invoca l’autonomia decisionale delle singole realtà. In circostanze eccezionali, il federalismo si è rivelato inconciliabile con una uniformità di regole che, imposta, risulterebbe in effetti anacronistica con la condizione Covid-free di tante province e consegnrebbe a Salvini e Meloni il lasciapassare per nuove polemiche sull’autoritarismo di Conte.

La vera battaglia elettorale – fuori e dentro i palazzi – avverrà il 31 luglio, quando bisognerà prolungare quello stato di emergenza che sta dietro le misure anti Covid, emanato un po’ in silenzio il 31 gennaio scorso e giunto anch’esso a scadenza. Sollecitato dallo stesso presidente Mattarella per giustificare a livello istituzionale il perdurare dei provvedimenti di contenimento, per rinnovarlo servirà una delibera del Cdm, che non ha potuto sottrarsi al confronto in aula. Lo stato d’emergenza attribuisce maggior potere all’esecutivo, che può emanare disposizioni subito operative bypassando il Parlamento. Basti pensare che la Camera ha approvato oggi, all’alba di un’ipotetica Fase 4, il decreto del 16 maggio che inaugurava la Fase 2.

L’Oms schiaccia sul freno e avverte della necessità di una lunga convivenza ma certo l’emergenza, per definirsi tale, non potrà essere a tempo indeterminato a meno di non rivedere davvero l’assetto democratico parlamentare. Pare che la durata del nuovo “mandato” sia già retrocessa da gennaio 2021 a ottobre, la proroga resta comunque inevitabile. Degli oltre 13 milioni di casi di Covid registrati nel mondo ne è guarita la metà, mentre i morti sono arrivati quasi a 600mila. Il record globale di contagi in 24 ore, 230mila, è di domenica scorsa: non possiamo guardare solo tra le nostra mura. Se il Coronavirus sta già minacciando il suo ritorno in Giappone, Corea, Hong Kong e Cina – dove hanno attuato una quarantena ben più intransigente della nostra – non si capisce perché non possa ripresentarsi in Italia, dove per tanta gente pare che l’epidemia non ci sia mai stata.