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Bonus in beneficenza, la generosità non si dimostra con i soldi degli altri

Ubaldo Bocci bonus

Chi sostiene di aver preso i 600 euro di bonus per darli in beneficenza si è arrogato il diritto, che dovrebbe essere unicamente dello Stato, di stabilire la priorità delle persone da aiutare.

Dopo lo scandalo dei parlamentari e dei consiglieri regionali e comunali che hanno richiesto il bonus pur non avendone evidentemente bisogno, anche se diritto, molti di loro si stanno giustificando sostenendo di averli presi per poi darli in beneficenza.

In realtà già durante il lockdown e immediatamente dopo avevo sentito molti fra amici e conoscenti che, avendone anche loro diritto benché non bisogno, avevano detto di voler richiedere (non so se poi lo abbiano fatto) il bonus per darlo in beneficenza. Sentendosi come dei novelli Robin Hood, hanno pensato di “togliere” (purtroppo non si può dire “rubare”, perché appunto ne avevano diritto) allo Stato per dare ai poveri. Senza, però, rendersi conto che così facendo stavano comunque sottraendo risorse a chi ne aveva bisogno: se costoro non avessero chiesto il sussidio, lo Stato avrebbe avuto ad esempio maggiori fondi a disposizione per poter riconoscere una cifra più alta quale sussidio. E proprio sull’iniquità della cifra stabilita dal Governo hanno tuonato a gran voce i partiti da cui provengono alcuni dei politici che hanno richiesto e ottenuto il bonus.

Ma soprattutto i politici arraffoni non si sono resi conto che, così facendo, sì stavano arrogando il diritto, che invece dovrebbe essere unicamente dello Stato, di stabilire la priorità delle persone da aiutare.

Se necessitassero di maggiore sostegno i liberi professionisti o i dipendenti, i disoccupati o gli occupati sarebbe dovuta essere, infatti, una scelta effettuata in base a un’analisi di priorità e non del sentimento personale dei singoli individui, che possono sentirsi, per diverse ragioni, più vicini a una categoria piuttosto che a un’altra. Vicinanza che, peraltro, potrebbe poi tramutarsi in bacino di voti, visto che ciascun politico attinge il proprio consenso elettorale soprattutto dagli ambienti, professionali e sociali, che gli sono più vicini e di cui promette di farsi portavoce. E allora, più che beneficenza, sarebbe propaganda. Ma la beneficenza, così come la propaganda, si fa con i soldi propri, non certo quelli degli altri, a maggior ragione se gli altri sono i cittadini che bisognerebbe rappresentare.

Ovviamente costoro dovranno ora dimostrare di aver effettivamente effettuato i bonifici e di averlo fatto ben prima del sorgere dello scandalo, altrimenti sarà facile pensare che si tratti soltanto di un escamotage per uscire dall’imbarazzo di essere stati sgamati con la mano nella marmellata.

Mentre lo Stato dovrà mostrarsi capace di stabilire meglio in che modo distribuire i soldi ai propri cittadini, altrimenti finirà per legittimare chi si sente impropriamente in diritto di stabilire una propria, personalissima, classifica dei bisognosi. Perché, se c’è qualcosa che questo scandalo ha dimostrato, è indubbiamente quanto i soldi siano stati distribuiti male, con l’obiettivo di non scontentare nessuno, ma scontentando tutti.