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Voto elettronico per il referendum: l'Italia perde l'opportunità nonostante il Covid

Covid e voto elettronico, un'altra occasione persa per l'Italia

Proseguire nel 2020 con penna e calamaio stride non poco con la rivoluzione digitale promessa e con le misure anti contagio tanto raccomandate.

Se c’era un avvenimento epocale che doveva riportare in auge il dibattito sul voto elettronico, quello era il Covid. Non ci sono riuscite la pandemia in atto e la folle coincidenza temporale tra apertura delle scuole ed Election Day. Un’altra, autentica, occasione persa.

Ma allora a cosa serve lo Spid? L’identità digitale che permette di accedere a tutti i servizi della pubblica amministrazione per ogni genere di pratica, come se ci presentassimo di persona allo sportello di Poste, Agenzia delle entrate o di un qualunque ministero. Prenotazioni sanitarie, iscrizioni scolastiche, tasse e contributi, appalti, richieste di bonus, casse integrazioni, redditi di cittadinanza, finanziamenti, concorsi e graduatorie, sgravi e rimborsi fiscali: non sono certo pratiche meno importanti e vitali per cittadini e imprese, o che richiedano meno sicurezza e trasparenza. Se per queste lo Spid garantisce davvero privacy e tutela dalla profilazione, perché non utilizzarlo per testare a che punto è il voto online? Se protegge i nostri dati personali, assicurando segretezza e anonimato, perché non provarlo nella tornata elettorale del 20 e 21 settembre, per referendum e amministrative?

I vantaggi del voto elettronico

È vero che finora solo 6 milioni di italiani hanno registrato lo Spid e che le fasce di popolazione più anziane o tecnologicamente meno alfabetizzate (sempre di meno, per la verità) potrebbero incontrare delle difficoltà rapportandosi all’approccio digitale (dalle interfaccia comunque sempre più intuitive). Ma si poteva iniziare se non altro ad affiancarlo all’anacronistica modalità con carta e matita, riducendo code e assembramenti rischiosi e cominciando a formare la cittadinanza a un’innovazione in linea con la digitalizzazione del Paese.

Il voto online azzera le schede nulle provocate da errori involontari: la piattaforma, come nella compilazione di qualsiasi form, guida l’utente distratto o confuso nella comprensione e correzione dell’errore, segnalando campi mancanti o avvertendo di quegli sbagli, nella selezione di liste e candidati, che a volte costringono i presidenti di seggio a invalidare la preferenza nonostante una chiara espressione dell’intenzione di voto. Per la sua comodità il televoto avrebbe inoltre l’effetto di aumentare finalmente l’affluenza alle urne, in costante picchiata, riavvicinando la popolazione alla gestione della cosa pubblica, seppur da remoto.

Nel breve termine, consentirebbe una lettura dei risultati estremamente più veloce ed eviterebbe di chiudere e riallestire le scuole appena aperte; a lungo termine, ci farebbe risparmiare un’enorme quantità di denaro che, specie in questo momento, potrebbe essere destinata altrove. Portare oltre 51 milioni di aventi diritto ai seggi costa ai contribuenti circa 350 milioni di euro tra scrutinatori, tariffe agevolate per gli spostamenti, misure di vigilanza rafforzate ed esborsi “a vuoto” dei parlamentari. Valeva la pena fare un sacrificio economico adesso per ottenere un grande vantaggio in futuro, investendo la cifra risparmiata nell’ammodernamento delle infrastrutture tecnologiche dello Stato. Perché è questo – il finanziamento di potenti fondamenta digitali a prova di servizio pubblico – l’unico problema alla base dell’accantonamento del voto politico online, non solo nel nostro Paese.

Dal privato al pubblico

Non l’hanno preso in considerazione neanche i 5 Stelle, che dovrebbero esserne i primi sponsor visto che proprio attraverso una piattaforma digitale, la celebre Rousseau della Casaleggio Associati, amministrano fin dagli albori le componenti elettive e la partecipazione di oltre 175mila iscritti alle sorti del Movimento. Certo è un ambito di applicazione privato, circoscritto a un’utenza limitata, chiamata a decisioni non governative.

Nei contesti privati il voto via internet è una realtà consolidata. L’Italia ha ratificato nel 2010 la direttiva CE 2007 che consente l’e-voting durante le assemblee degli azionisti, per le società quotate in Borsa: da allora si è propagato in aziende, fondazioni, cooperative, enti e oggi centinaia di migliaia di persone rinnovano così Cda e cariche societarie. Parliamo però sempre di gruppi numericamente ristretti, con pochi candidati e quesiti limitati.

Forse la modalità web, trasferita in politica, perde di colpo la sua efficacia? In parte sì, e per una volta non è una questione burocratica ma puramente tecnologica: lo sviluppo di una infrastruttura informatica altamente performante, capace di reggere il peso di milioni di connessioni online in poche ore e soprattutto respingere gli attacchi hacker. Anche il cyber crimine ha fatto passi avanti nel frattempo, crescendo insieme alla quantità e qualità delle attività svolte in Rete: proprio durante il lockdown gli assalti a dipartimenti pubblici e soggetti privati sono diventati sempre più insidiosi, mirati, difficili da contrastare e – nel caso del voto politico – potrebbero dirigersi non solo alla piattaforma di voto ma anche ai singoli dispositivi mobili da cui vi si accede.

All’estero

In altre nazioni ci provano da tempo. I primi sono stati Canada e Usa. Ma la forma di e-voting americana, tuttora in vigore in molti Stati, è su scheda perforata e quindi – come i sistemi a lettura ottica o a registrazione elettronica diretta (Dre) – prevede comunque la presenza fisica dell’elettore. Sembrerà una sorpresa ma il vero leader estero nel voto politico online è l’Estonia, dov’è attivo dal 2005. La piattaforma è cresciuta, conquistando la fiducia dei cittadini, tanto che oggi quasi la metà della popolazione la utilizza al posto del metodo tradizionale. Alla contestazione del rischio di coercizione – ovvero l’impossibilità di verificare che l’elettore, non protetto dalla cabina controllata a vista, subisca minacce alla libertà di espressione – il governo di Tallin ha risposto con una formula a doppio binario, anticipando cioè il voto via internet al giorno precedente le elezioni e consentendo a ognuno di recarsi il giorno dopo nel seggio fisico per annullare sulla carta la preferenza telematica.

Anche in Francia già nel 2003 la maggioranza dei residenti negli Stati Uniti elesse i suoi rappresentati online: una procedura adoperata anche per le primarie presidenziali del 2007 in 750 seggi, registrando un picco di affluenza. In Svizzera, divisa in cantoni e quindi numericamente frazionata, i referendum locali via web sono una prassi ormai stabile. Certo si tratta ovunque di elezioni piccole, che non coinvolgono grosse masse (l’Estonia non arriva neanche a 2 milioni di abitanti) o destinate a cerchie ristrette (come i residenti all’estero o in una specifica regione), il che conferma l’efficacia politica del voto online solo per cifre contenute.

L’investimento mancato

Germania, Belgio, Norvegia, Regno Unito e la stessa Francia ne hanno rinviato per ora l’applicazione su larga scala, dopo averlo sperimentato per un decennio, per due problemi interconnessi ed entrambi di carattere informatico: la massa di dati da elaborare contemporaneamente da più terminali in poco tempo, e l’esposizione al cyber crimine che comporta la mancanza di una tale infrastruttura digitale alle spalle. Il rischio non è tanto che resti una traccia del nostro passaggio in Rete, e qualche “spia” riesca prima o poi a estrapolare il nostro click impresso nel web. Il cyber crimine non è interessato a risalire all’identità dei singoli votanti, ma semmai a sabotare in toto il suffragio mandando in tilt il sistema.

L’elezione di un governo nazionale è piatto che fa molta più gola rispetto al rinnovo di un consiglio comunale o del board di una municipalizzata. La posta in gioco in un referendum costituzionale è troppo alta, a livello istituzionale e mediatico, per rischiare frodi e infiltrazioni che destabilizzerebbero la credibilità dell’apparato democratico e dell’intelligence, rei di non aver saputo proteggere l’identità e la libertà dei propri cittadini, esponendole ai predatori del web. Gli Stati hanno paura, non se la sentono di accettare la sfida. Perché, oltre a investire nella ricerca tecnologica, dovrebbero anche assumere un esercito di super ispettori postali, professionisti della cyber security da pagare profumatamente per strapparli alla ricca concorrenza delle multinazionali private.

Non provarci nemmeno, però, è da perdenti: significa darla vinta e rinunciare a combattere la criminalità informatica. Il flop, nell’ottobre 2017, dell’ultima sperimentazione italiana della serie cominciata nel 2001 – lo scrutinio elettronico nel referendum consultivo sull’autonomia della Regione Lombardia – fu squisitamente tecnico, dovuto all’incapacità dei promotori di implementare una nuova macchina organizzativa. Anche qui l’insuccesso non ha riguardato la privacy e la segretezza del voto. Proseguire nel 2020 con penna e calamaio stride non poco con la rivoluzione digitale promessa e incentivata, oltre che con le misure anti contagio tanto raccomandate. La discussione sull’introduzione in Italia, che si trascina da 20 anni, non è stata nemmeno sfiorata dall’epidemia in corso: l’argomento è chiuso e non se ne vede la riapertura all’orizzonte. La paura di infrangersi contro il fallimento ha fatto alzare bandiera bianca. Una partita troppo delicata per il “cambiamento”. E un’ignavia che finisce con instillare implicitamente il dubbio che, forse, lo Spid non è poi così sicuro.