> > Cosa succederebbe se Giuseppe Conte fondasse un suo partito?

Cosa succederebbe se Giuseppe Conte fondasse un suo partito?

partito di conte

Nella bipolarizzazione dell’agone elettorale, Conte, con il suo eventuale partito, rappresenta il vero fulcro che bilancia la nuova “Casa delle libertà”.

Da quando è entrato a Palazzo Chigi, da illustre sconosciuto, è rimasto ininterrottamente e saldamente alla guida della classifica di popolarità dei personaggi politici, resistendo agli assalti di entusiasmo prima verso Salvini e, adesso, per Giorgia Meloni. Andata a rubare consensi anche a casa sua, tra i 5 Stelle. Il 65% di gradimento accredito a Giuseppe Conte da Ipsos e Demos dopo l’accordo sul recovery fund, indica che il presidente del Consiglio è apprezzato anche da chi non vota centrosinistra o non vota proprio: elettori che lo valutano pur schierandosi all’opposizione, distinguendolo dalla maggioranza di governo e dal centrosinistra. Percentuali di stima popolare alte ancor prima del Covid, nel Conte I: dalla primavera 2018, quando partì la 18esima Legislatura, la soglia del consenso personale non è più scesa sotto il 60%, staccando ogni altro leader. Cifre che – in uno scenario di formazioni politiche sempre più personalistiche, identificate con un “capo” spirituale il cui cognome ne diventa simbolo e sinonimo – da tempo spingono a fantasticare sulla nascita di un “Partito Conte”: indipendente, autonomo, svincolato dagli altri sulla scheda elettorale. Berlusconi, Di Pietro e Grillo ne hanno già fondati di successo dal nulla. Conte parte dalla posizione di forza di chi è dentro l’ingranaggio, con la chance di appuntarsi sul petto la medaglia della vittoria sul Coronavirus.

Al netto delle differenze regionali e traendo una media nazionale dai voti espressi nell’ultima consultazione, il M5S – di cui il premier resta libera e originaria emanazione – è al momento al 15% circa delle preferenze. E in qualità di personalità più popolare in assoluto nel Movimento, come emerso da ogni sondaggio interno, è lecito ipotizzare che possa portarsi appresso quasi la metà di un elettorato ormai sempre più scisso. Con il 5/6% già oltrepasserebbe la soglia di sbarramento che Italia Viva, Azione, LeU e sinistre varie faticano a varcare con l’attuale legge.

Ma c’è Conte anche nel segreto della tenuta del Pd alle amministrative, confermata ai ballottaggi: dopo l’alleanza pentastellata Zingaretti ha via via assottigliato il distacco dalla Lega, affermandosi ora come secondo partito. Non è escluso che possa finire nel sacco di Conte anche quel 2-3% guadagnato dai democratici tornando al governo: è lui, del resto, il collante di una impronosticata maggioranza che, nel bene e nel male, sta traghettando l’Italia fuori da un’emergenza sanitaria ed economica globale, improvvisa. I contagi sono stati contenuti finora rispetto ad altrove; alcune misure di sostegno, per quanto perfettibili, vengono erogate; le risorse finanziarie Ue sono state sbloccate e pian piano arriveranno. Non è ancora finita e tutto si poteva fare meglio, ma poteva anche andare peggio. Con colpi di spugna, o di testa, di cui sembrano capaci quei “cari leader” tanto amati, ma a cui gran parte degli elettori evidentemente ancora non si sente di affidare in toto il paese. Zaia ha bilanciato il fallimento Fontana-Gallera in Lombardia, ma non l’ha del tutto cancellato nell’opinione pubblica, dubbiosa non tanto delle idee programmatiche quanto delle persone selezionate per realizzarle.

A molti cittadini piace la figura forte, sfidante, decisa, perfino sopra le righe: il “popolano” più che populista, che non le manda a dire e dice pane al pane, digrignando i denti. Ma a molti di questi stessi cittadini, e a tanti altri, piace pure che poi a comandare, a dirigere la squadra, a trattare sui tavoli internazionali, ci vada uno presentabile, responsabile nei modi oltre che nelle proposte. Conte è un avvocato, elegante e sorridente, garbato negli atteggiamenti ma capace quando occorre di dimostrare polso e di saper rispondere per le rime a Salvini quando fece cadere il governo gialloverde e quando lo attaccò durante il lockdown: sempre però nelle sedi istituzionali, senza trascendere i toni, senza eccessi da show. Anche Conte è una guida, un outsider dei palazzi che riesce ad accontentare differenti anime politiche unendo le caratteristiche di novità, di rottura col passato, a una certa dose di competenza e formalità. Se da una parte c’è una destra che si va sempre più estremizzando, dall’altra ne resta un’altra, conservatrice anche nelle maniere e senza derive neofasciste, intenzionata a mantenere comportamenti civili e moderati, spaventata dalle conseguenze economiche derivanti dagli atteggiamenti spesso impulsivi e autoritari del fronte di riferimento. Una bipolarizzazione dell’agone elettorale di cui Conte, più che i partiti raccolti sotto il suo ombrello, rappresenta il vero fulcro che bilancia la nuova “Casa delle libertà”: il gancio a cui appendere tutto ciò che non è centrodestra, incluso il movimentismo di ong e no profit, perché faccia da contraltare allo scivolo verso l’intolleranza e l’esasperazione del conflitto sociale da parte di politiche troppo aggressive e destabilizzanti.

Oltre alle simpatie di provenienza grillina e democratica, Conte avrebbe dunque dalla sua anche un ipotetico terzo dei simpatizzanti dell’opposizione – quella fascia fluttuante e instabile di elettorato che si sposta in seno alla coalizione di centrodestra – e due terzi del grande popolo degli astensionisti: se risvegliasse il loro interesse, il Partito Conte arriverebbe da solo almeno al 10%. Il contesto di preferenze trasversali, in Parlamento e nel Paese, rende difficili le stime ma attesta comunque un’alta probabilità di successo dell’operazione. Il problema nascerà, semmai, nella successiva scelta dell’alleato di governo. Che teoricamente dovrebbero restare M5S e Pd, cioè i serbatoi da cui avrebbe più attinto e che rischiano arrivare prosciugati, con numeri insufficienti, al momento di formare il Conte III. Ma questo è problema che verrà dopo. Fra tre anni, salvo imprevisti.