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Nuovo DPCM, perfino Conte ammette che si arrabbierebbe con se stesso

vertice maggioranza

Giuseppe Conte "ristoratore" s'arrabbia con se stesso nel discorso della domenica, a ora di pranzo, che ha strozzato il boccone in gola a tanti gestori.

Sono scesi in strada assalendo le forze dell’ordine perché la trattoria aveva chiuso alle 23. Che faranno stasera? Se ne rende conto lo stesso Conte: “Se fossi un ristoratore proverei anch’io rabbia verso il governo”, ha ammesso in conferenza. Il giro di vite, assente nel precedente Decreto, stavolta c’è stato. Il premier capisce cosa significa sottoscrivere un Dpcm – il secondo in una settimana, il terzo in meno di un mese – che, un minuto dopo la firma, potrebbe gettare un Paese nella guerriglia urbana.

La responsabilità assunta e riassunta in una scelta, rinviata perché fosse il più possibile concordata con autorità sanitarie, enti locali e sindacati, mentre fuori dal Palazzo divampa la battaglia, non solo verbale. L’allarme sulla rivolta sociale era già stato lanciato dalla stessa Oms, prima degli scontri di Napoli e Roma, per voce del direttore vicario e membro del Cts Ranieri Guerra.

Da lunedì 26 ottobre teatri, cinema, sale giochi e terme spengono le luci per sempre, al chiuso o all’aperto che siano. I 7 giorni di tempo concessi a palestre e piscine sono scaduti. La chiusura alle 18 per pub, birrerie e locali significa non aprire proprio. Ai ristoranti resta il mezzo carico a pranzo e il delivery fino alle 24. Scendono a 4 gli avventori al tavolo e devono essere conviventi nello stesso appartamento, non ci si può fermare a bere e mangiare in piazza.

Cominciare la serrata alle 18, anziché andare dritti al lockdown, significa lasciare un boccaglio da cui continuare a respirare sott’acqua. La chiusura domenicale avrebbe, del resto, aumentato il pericolo di riunioni domestiche. Adesso però, per non far arrabbiare davvero ristoratori e operatori del fitness e dello spettacolo, lo Stato deve tirare fuori i soldi e sostenerli. Alcuni indennizzi sono stati annunciati da Conte nel discorso. Ma come e quando arriveranno, se l’Agenzia delle entrate deve ancora finire di distribuire quelli di aprile e maggio?

Agli altri negozi è andata meglio: dall’abbigliamento alle pasticcerie – inclusi parrucchieri, librerie ed estetisti che fino a qualche mese fa erano un caso – abbasseranno le serrande un paio d’ore prima. Il vero problema, per tutti, sarà trovare qualcuno che ci entri anche di giorno, visto l’incremento dello smartworking e la paura che ha ripreso a dilagare tra la gente insieme al contagio. Come a marzo restano esclusi dallo stop alimentari, farmacie e tabacchi. Come erano e restano esclusi da limitazioni bus e metro, “veicoli” in ogni senso del virus ma indispensabili a chi, per lavoro o salute, è ancora costretto a muoversi in città. Lo sport prosegue solo a livello professionistico, con tutti i distanziamenti del caso. Continuano in presenza piena solo scuole dell’infanzia e primarie.

Per il resto sono ancora generiche “raccomandazioni”, come limitare gli spostamenti all’interno e tra i comuni, e non potrebbe essere altrimenti: i cittadini devono capire che alla fine tutto dipende da loro. Che sono disposizioni prese per il bene comune, di chi gli è vicino e non può esserci bisogno di ricorrere a controlli, ispezioni e blitz. Sono i criminali usciti di casa armati di spranghe e fumogeni a richiamare il paventato “stato di polizia”, il fantasma del “regime militare” agitato da un fronte “contrario” a tutto per principio.

Siamo in momento in cui qualunque decisione, a torto o a ragione, scontenta qualcuno: se decide il premier è dittatura, se lascia fare alle Regioni scarica il barile, se si chiude bisognava aprire e viceversa. Da ultimo pure il virologo Giorgiò Palù s’è unito alla schiera di chi considera questi provvedimenti figli di un’isteria collettiva. Certo, la nevrosi c’è. Potrebbe non esserci di fronte a un virus che non si conosce ancora e per cui non c’è un vaccino? Di fronte ai lavoratori al bivio tra la fame e l’infezione, incerti se preoccuparsi più della salute o delle tasche vuote?

Ma al netto di critiche e invettive, l’ennesimo Dpcm non servirà al governo neanche a mettersi l’anima in pace, pensando di aver fatto tutto ciò che poteva. Perché in estate, come cicale, non s’è approfittato a rinforzare la guardia per farci trovare pronti adesso. Si è perso tempo che non tornerà indietro e sperperato i sacrifici degli italiani, nonostante gli insistenti allarmi dei “grilli parlanti” sulla seconda ondata all’orizzonte. E perfino oggi, mentre la Slovenia chiude il confine, in Sardegna ci si reca ancora alle urne per le comunali e i concorsi pubblici e privati vanno avanti, nella speranza che almeno qualche centinaio di disoccupati trovi un posto.

Non illudiamoci: non vedremo certo da domani gli effetti delle nuove misure e neanche tra due settimane. Il punto quotidiano fotografato dal bollettino delle 17 è, come la luce delle stelle, solo la proiezione di ciò che è accaduto prima, a inizio ottobre.

Ma non c’è tempo di aspettare, di capire. È un governo diviso, che deve decidere in fretta, stretto d’assedio dalla frenetica impennata dei contagi sfuggita a ogni pronostico, dagli appelli degli scienziati, dalle violenze dei manifestanti agitate da criminalità organizzata ed estrema destra. E dal panico della maggioranza dei cittadini per bene, che non avrebbero bisogno di “raccomandazioni” e coprifuoco imposti per decreto per restare a casa e continuare ad adottare ogni misura che può contribuire nel suo piccolo a dissipare l’incubo: lo spettro ibseniano del ritorno del lockdown, a cui ci stiamo di fatto avvicinando a grandi falcate. Scatterà a 2300 terapie intensive, secondo gli esperti.

Scommettiamo che ci sarà un nuovo Decreto prima che scada questo, il prossimo 24 novembre?