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Referendum eutanasia, chi ha sbagliato davvero sul fine vita e chi rischia di sbagliare ancora

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Sul fine vita, su Eluana e Piergiorgio e Dj Fabo e su tutti gli altri inferni di letti immoti del paese a legiferare ci sarebbe dovuto andare di corsa il Parlamento.

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Le cronache recenti ci consegnano dritti in faccia e con il tempismo di un Carnevale malvagio un milione e 240mila coriandoli amari: ne conosciamo il numero esatto perché sono tanti quante le firme in calce all’istanza di un referendum sul fine vita che avrebbe dovuto mettere fine ad uno sconcio antico cominciato in tempi recenti con la povera Eluana Englaro e suo padre Peppino. Ad essere precisi e parlando di firme dovremmo dire tante “quante erano”, dato che in punto di Diritto su norma di massimo rango quelle firme oggi ed ora sono carta straccia.

E non ci vuole poi tanto coraggio nel dire che la Consulta ha fatto bene a bocciare il referendum, ce ne vuole quel tanto che basta per dare coda al ragionamento e dire che è un bene amaro, ma inoppugnabile, ingiusto ma legittimo. Chiariamola prima di sentire arrivare gli ululati e proviamo ad addentare la polpa: il fine vita è una materia talmente complicata che delegare agli italiani una decisione sulla sua impalcatura normativa, definitiva ed auspicabile, è un po’ come chiedere ad un bambino di 7 anni di fare i calcoli per le traiettorie del primo razzo che ci porterà su Marte.

Il principio è che il cielo è bellissimo e gli astronauti sono fighi, ma per navigare in rotta sui parsec serve la nozione, non l’intenzione. E non offendiamoci noi italiani se magari in una botta senziente qualcuno di noi si trova ad ammettere che un signor Rossi qualunque ha il diritto potenziale di esprimersi sul fine vita ma questo diritto è meglio che non lo eserciti. E proprio per ovviare a questa faccenda, alla distanza siderale cioè in termini di qualità ed efficienza che sta fra la democrazia diretta come gargarismo decisionale e la giustezza delle leggi come solido costrutto di un modo di vivere, qui da noi vige una cosa che si chiama democrazia rappresentativa.

È quella cosa per cui sul fine vita, su Eluana e Piergiorgio e Dj Fabo e su tutti gli altri inferni di letti immoti del paese a legiferare ci sarebbe dovuto andare di corsa il Parlamento. Perché piaccia o meno e al di là della vulgata per cui lì in emiciclo sarebbero tutti o papponi o dementi le Camere hanno uomini, materiale, mezzi e sponde cognitive. Li hanno per fare le cose per bene e magari impalcare una legge che non incappi nel setaccio dei giudici costituzionali che sul caso di specie hanno semplicemente detto una cosa mica tanto astrusa, a contare la loro mission. E cioè che non si può consegnare la qualificazione giuridica di un omicidio ad un popolo che sostanziandola va dritto contro due articoli della Costituzione, cioè dritto contro se stesso e poi si imbroda perché “ha partecipato”

Il guaio è che chi dovrebbe giace e chi mai potrebbe s’indigna. Il problema retroattivo in etica è che il Parlamento italiano, anche a fare la tara al mea culpa ed al reflusso di responsabilità proclamato da Roberto Fico in queste ore, è abilitato a risolvere la faccenda, ma del tutto inabile, colposamente inabile, ad intuirne una portata che sta tutta nella celerità di un legiferato urgente come non mai.

La riprova di questa inerzia che sa quasi di dolo a contare urgenza della materia ed idoneità delle Camere a risolverla? Due anni e passa fa, giusto prima che il Covid bussasse alle porte del mondo, la stessa Consulta che ieri ha bocciato il referendum sul fine vita fece un cazziatone maiuscolo al Parlamento di allora perché era stata costretta a fare giurisprudenza senza un legiferato. Le toghe si pronunciarono sulla sentenza Cappato e sull’istigazione al suicidio e stigmatizzarono (in burocratese aulico cazziare si dice così) il comportamento di un consesso che era in clamoroso ritardo sulla promulgazione di una legge che mettesse ordine su tutto il concetto.

Loro, i giudici, furono costretti a pronunciarsi sulla polpa di merito del singolo caso e lo fecero senza che preesistesse una norma ecumenica alla quale richiamarsi. E quando la giustizia è costretta e marciare in avanscoperta rispetto alla politica vuole dire che le cose non vanno. Vuole dire che la norma che arriva a dare senso etico ad una questione sociale e sollievo a chi si sperde immobile in un letto da cui può solo urlare di voler morire è considerata fatto secondario o procrastinabile.

E se per lo Stato italiano, quello che abbiamo delegato a fare le cose per noi e meglio di noi, il diritto a morire, non ad essere uccisi, è secondario, allora Dio ci scampi dai barbari che siamo diventati. Tutti.