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Come riconoscere una bufala: pubblicità e web

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La diffusione di notizie non verificate o di vere e proprie bufale sul web continua ad essere al centro dell’attenzione. Ma si può riconoscere una bufala? Dopo la presunta influenza esercitata nel corso delle presidenziali USA 2016, è arrivata di recente l’inchiesta di BuzzFeed sul Movimento ...

La diffusione di notizie non verificate o di vere e proprie bufale sul web continua ad essere al centro dell’attenzione. Ma si può riconoscere una bufala?

Dopo la presunta influenza esercitata nel corso delle presidenziali USA 2016, è arrivata di recente l’inchiesta di BuzzFeed sul Movimento 5 Stelle. Nel frattempo, Google e Facebook hanno annunciato di essere intenzionati a tagliare gli introiti pubblicitari ai siti che diffondono notizie false.

Come vivono i siti di bufale

Il sistema alla base dell’esistenza (e del proliferare) dei siti cosiddetti diffusori di bufale è legato a doppio filo alla pubblicità e al web marketing. Quando si apre un sito, infatti, è possibile iscriversi a diversi servizi per la gestione di spazi pubblicitari. Il più famoso è Google AdSense. Funziona in modo molto semplice: ci si iscrive e si mettono a disposizione degli spazi sul proprio sito che potranno essere usati dagli inserzionisti per posizionare dei banner pubblicitari.

A creare il flusso di denaro sono gli inserzionisti, che pagano in modo proporzionale al traffico sul sito ospitante. A quest’ultimo spetta una parte del guadagno, mentre un’altra parte rimane a Google.

Non c’è soltanto AdSense – altri servizi sono Criteo, Ligatus, LinkWeLove, TheOutPlay e Publy – ma il meccanismo di base rimane uguale.

Pubblicità, qualità dei contenuti, click

Il problema in tutto ciò è, come hanno fatto notare in molti, che gli introiti non premiano la qualità dei contenuti, ma la capacità di attrarre lettori. Per attirare utenti può essere sufficiente un titolo accattivante, anche solo in parte, o al limite per nulla, rispondente alla realtà, mentre l’articolo in sé è molto meno importante: il click si fa aprendo la pagina, non dopo avere letto il contenuto della stessa.

Risultati di una ricerca: i giovani non sanno riconoscere le bufale

In questo quadro generale c’è poi l’ulteriore problema rappresentato dal senso critico di chi naviga in rete.

A seguito di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford, si è arrivati alla conclusione che la capacità dei giovani di valutare le informazioni presenti nel web è “deprimente”. In un anno e mezzo circa, un team di scienziati ha sottoposto studenti di 12 Paesi e di diverse fasce di età (dalle medie all’università) a test di vario genere per capire se erano in grado di distinguere fra una notizia attendibile e una che non lo è, fra un articolo di parte e uno con contenuti pubblicitari, fra fotografie credibili e clamorosi fotomontaggi.

Dai test è risultato che i giovani non sono in possesso di un adeguato senso critico neppure quando sono alle soglie della laurea. Si tratta quindi di un pubblico che, in sostanza, si lascia ingannare con facilità, regala con facilità click a contenuti che dovrebbe giudicare non meritevoli, o addirittura ne promuove la diffusione con la condivisione sui social.

Un quadro “deprimente”, per usare la definizione scelta dai ricercatori, ma che rovescia la prospettiva del problema delle bufale. Non si tratta in effetti di tagliare la pubblicità ai siti che diffondono notizie false (misura peraltro corretta, ma non si sa quanto efficace), ma di insegnare come riconoscere una notizia attendibile rispetto a una che non lo è.

Quando Orson Welles terrorizzò l’umanità con uno scherzo radiofonico, dimostrò la potenza devastante del settore dell’informazione. Sono passati quasi ottant’anni da allora e sarebbe giusto poter pensare che si tratti di un’esperienza impossibile da replicare. Perché non siamo più dei creduloni.