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Violenza sulle donne, i fondi del Governo a cantanti e sportivi: non alle associazioni

coronavirus e violenza sulle donne

La violenza sulle donnè è un tema rilevante durante l'Emergenza Coronavirus, nonostante lo Stato abbia stanziato alcuni fondi per combatterla.

Un’emergenza nell’emergenza. Quella casa in cui siamo stati costretti a restare per mesi, se per molti è stato un rifugio sicuro per il contagio da Covid-19, per tante donne ha significato una prigione. Una trappola. In alcuni casi una condanna a morte. Come denunciato sin dagli inizi di marzo dalle associazioni in difesa delle donne, il periodo di lockdown ha da una parte obbligato madri, mogli e fidanzate già vittime di violenza a restare chiuse in casa con i loro carnefici, dall’altra ha acuito situazioni al limite per via dello stress a cui molti sono stati sottoposti. Il risultato, in entrambi i casi, è che a farne le spese sono stati i più vulnerabili.

A cominciare dalle donne. Sono undici quelle uccise da un familiare dall’inizio di marzo. Una strage di cui l’isolamento è la prima causa. Come emerge da una rilevazione dei centri antiviolenza D.i.Re. (Donne In Rete), rispetto allo stesso periodo dello scorso anno le richieste di aiuto sono aumentate del 74,5%. C’è poi un altro dato allarmante: dal 2 marzo al 5 aprile i centri D.i.Re. sono stati contattati complessivamente da 2.867 donne – 1224 in più se paragonati alla media mensile registrata nel 2018 negli oltre 80 centri sparsi per l’Italia -, di cui soltanto 806 (pari al 28%) sono donne che non si erano mai rivolte prima ai centri antiviolenza del loro territorio. Un dato che sottolinea le difficoltà delle vittime di violenza a chiedere aiuto perché sotto continua minaccia e, dunque, come i dati – già di per sé drammatici – siano in realtà sottostimati.

I fondi anti Covid

Proprio per questa ragione il governo si è subito attivato per offrire un aiuto concreto. «Abbiamo sostenuto e rafforzato la campagna di comunicazione, riportando in Rai lo spot #LiberaPuoi e realizzando una nuova campagna di sensibilizzazione, attualmente in programmazione, con diversi artisti attenti a questo tema», ha spiegato solo pochi giorni fa la ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti.

Ma l’aiuto più concreto dovrebbe arrivare, a detta dell’esecutivo, dai fondi messi a disposizione «per assicurare – si legge dalla
documentazione di Palazzo Chigi, consultata da notizie.it – alle donne che si rivolgono alle Case Rifugio e ai Centri Anti Violenza, nel periodo dell’emergenza sanitaria, l’accoglienza e i servizi necessari a garantire la tutela della salute loro, dei loro familiari e degli operatori, e l’adozione dei protocolli di sicurezza previsti dall’emergenza sanitaria da Covid-19».

In totale Palazzo Chigi ha messo a disposizione 5,5 milioni di euro. Peccato, però, che l’intenzione sia di distribuirli a pioggia e così «l’importo massimo erogabile, omnicomprensivo di ogni spesa ed onere, è pari ad euro 15.000,00 per ciascuna Casa Rifugio e ad euro 2.500,00 per ciascun Centro AntiViolenza».

Un sistema che fa acqua

Nonostante la nobile iniziativa, il pericolo – a detta delle associazioni in difesa delle donne – è che i soldi vengano eccessivamente parcellizzati e che, soprattutto, a goderne siano anche enti e associazioni che, pur essendo impegnati nel terzo settore, non si occupano né si sono mai occupati specificatamente di genere. Per questa ragione D.i.Re. ha inviato pochi giorni fa una richiesta alla ministra poiché «è indispensabile e non più rinviabile la revisione dei criteri minimi per qualificarsi come centri antiviolenza e case rifugio previsti dall’Intesa Stato-Regioni del 27 novembre 2014, anche alla luce dell’esiguità dei finanziamenti previsti».

Il rischio concreto è «l’ennesima frammentazione di risorse e di energie che deriva dalla ripartizione dei finanziamenti a centri e luoghi che, pur lavorando nel sociale, non hanno i requisiti e la specificità del tema della violenza alle donne, così come anche i trattati internazionali impongono», spiega la presidente di D.i.Re. Antonella Veltri.

Tutto nasce dalla non piena applicazione da parte delle Regioni (che distribuiscono i fondi statali ai vari enti che fanno domanda) della Convenzione di Istanbul, la convenzione europea siglata nel 2011 per la lotta alla violenza contro le donne. Se infatti il trattato specifica nel dettaglio cosa siano centro antiviolenza e casa rifugio, e cioè strutture che accompagnano le donne dalla prim accoglienza fino alla piena autonomia con la ricerca di un lavoro, «diversi enti già esistenti – spiegano ancora da D.I.Re – hanno semplicemente creato un servizio psicologico destinato a chi è vittima di violenza: in questo modo possono ricevere fondi che però destinano a coprire costi di struttura, che poco c’entrano con la tutela delle donne».

Cantanti e rugbisti

Basta d’altronde andare a vedere chi finora ha beneficiato dei fondi antiviolenza messi a disposizione dal dipartimento per le Pari opportunità. Secondo l’ultimo bando che ha distribuito 11,7 milioni di euro divisi tra progetti di inserimento lavorativo, comunicazione, educazione e trattamento degli uomini maltrattanti, ritroviamo ad esempio la Nazionale Cantanti e l’Associazione Italiana Calciatori che hanno beneficiato di 175mila euro.

La stessa cifra – per fare un paragone – destinata proprio a D.I.Re., che da anni si occupa di violenza di genere. Ma in realtà abbondano – inspiegabilmente – le associazioni sportive: dal San Lorenzo Rebels Rugby Club di Roma (124mila euro) fino all’associazione sportiva dilettanstica Sphera di Cadoneghe, in provincia di Padova, (42mila euro).

Centri religiosi, comuni e scuole

Ma non è tutto. Molte associazioni sono critiche anche nei confronti della marea di enti religiosi che beccano quattrini. Anche qui qualche esempio: alla Congregazione delle suore di San Giovanni Battista di Roma sono andati 125mila euro; stessa cifra alla Piccola casa della divina provvidenza di Torino, al Centro per la Famiglia di Roma (della Congregazione dei
Missionari oblati di Maria Immacolata), alla Fondazione Famiglia di Maria di Napoli.

«Il dubbio – spiegano ancora da D.I.Re. – è se in queste circostanze si fanno effettivamente gli interessi delle donne: se ad esempio una ragazza vittima di violenza vuole abortire? Dubito le saranno date tutte le informazioni e le possibilità di cui può avvalersi in strutture in cui neanche gli anticoncezionali vengono distribuiti». L’elenco è popolato poi da una miriade di enti comunali e provinciali, piccoli e grandi: si va dalla provincia di Viterbo al comune di Roccamontepiano, in provincia di Chieti; da Roma Capitale al comune di Aiello del Sabato (Avellino). Ed anche in questo caso ci si chiede se siamo davanti a veri centri di violenza oppure se si cerchino “alibi” per accaparrarsi soldi.

Stesso dubbio anche per quanto riguarda sia diverse società di comunicazione e fondazioni che pure ritroviamo nell’elenco, sia tante università e scuole, come il Giulio Cesare (8.400 euro) e il Vittoria Colonna (97.500 euro) di Roma, il Salvemini di Bari (175mila euro) o il Da Vinci di Reggio Calabria (52.614) e l’istituto tecnico di Sezze (125mila).

«Il nostro – spiegano ancora da D.I.Re. – non è un processo alle intenzioni, ma occorre un approccio di sistema completamente diverso per offrire alle donne il giusto sostegno, come richiesto dalla Convenzione di Istanbul». Almeno per ora, tuttavia, la
ministra Bonetti non ha risposto alle richieste delle associazioni. «Diverse sono le lettere che abbiamo inviato al dipartimento in questo periodo di emergenza, ma solo una volta la ministra ci ha risposto». Si spera che questa volta vada diversamente.