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Covid, ritardi nella seconda dose del vaccino: quali sono i rischi

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I ritardi nella somministrazione della seconda dose del vaccino anti-Covid possono causare qualche problema.

Oltre un milione di persone si è sottoposto alla somministrazione della prima dose del vaccino contro il Covid-19 e, presto, riceverà la seconda dose. In molti, tuttavia, sono preoccupati da eventuali ritardi dettati dalla disponibilità delle fiale nei singoli Comuni. Gli esperti, dunque, hanno voluto chiarire a quali effetti le persone vanno incontro nel caso in cui il richiamo non avvenga nei tempi prestabiliti. 

I rischi dovuti ai ritardi

Un ritardo nella somministrazione della seconda dose del vaccino può condizionare l’efficacia di quest’ultimo. Gli intervalli, infatti, sono una parte importante del protocollo di sperimentazione della cura. Esulare da essi, dunque, modifica i risultati tramite cui il suddetto farmaco ha ottenuto il via libera dell’Ema.

Le dosi del vaccino Pfizer/BioNtech, in particolare, vanno somministrate a distanza di 21 giorni e, in questo modo, garantiscono una immunità del 95%. Una sola dose, dopo 12 giorni, invece, provocherebbe una immunità del 52%. Essa, in base a quanto spiega la casa farmaceutica, potrebbe addirittura diminuire nel caso in cui non venga effettuata la seconda dose entro circa quattro settimane. È dunque questo il rischio relativo al ritardo nel richiamo. Lo stesso vale per gli altri vaccini, con le rispettive variazioni negli intervalli.

La conferma dell’Aifa

L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha confermato che “una dose è sufficiente a provocare la desiderata risposta immunitaria entro due settimane e questa stessa risposta è fortemente potenziata dalla seconda dose”. È dunque “necessario attenersi alle correnti indicazioni di somministrazione di due dosi per i vaccini finora approvati“.

Anche l’Oms ha raccomandato di rispettare gli intervalli previsti. A fronte della limitata disponibilità dei vaccini, tuttavia, ha messo in conto la possibilità di “estendere l’intervallo tra le dosi fino a 42 giorni (6 settimane), sulla base dei dati degli studi clinici attualmente disponibili“.