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Sara Melotti, dalla fotografia di moda ai reportage nei campi profughi: "A volte fatico a vedere una speranza"

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Dalla fotografia di moda a quella di viaggio fino ai reportage umanitari al fianco delle ONG: Sara Melotti racconta a Notizie.it i suoi ultimi lavori in Iraq.

Sara Melotti è una di quelle persone difficili da definire. Si potrebbe dire che è una fotografa, una blogger, una scrittrice, una storyteller – termine che però, nel suo recente TedX a Perugia, ha definito abusato preferendo il termine “reporter fotografica“. Dopo un esordio nel mondo della moda e una storia travagliata che l’ha portata ad abbandonare le riviste patinate per avvicinarsi alla fotografia di viaggio, poi a quella etica e al lavoro con le ONG, Sara ha recentemente realizzato due reportage in Iraq. Ce ne parla a Mirror, la rubrica di Notizie.it.

Sara, il tuo lavoro consiste nel raccontare storie. Oggi però, prima di arrivare ai tuoi più recenti lavori, vorrei che ci raccontassi la tua di storia: come sei diventata fotografa e come sei passata dalla fotografia di moda ai reportage nei campi profughi iracheni.

È iniziato tutto quando a 21 anni mi sono trasferita negli Stati Uniti per fare la ballerina. È andata male ma per fortuna mi è stata regalata una macchina fotografica nel mezzo di un periodo difficile e questo mi ha dato un nuovo scopo nella vita.

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Ho messo tutte le energie che avevo in questa nuova passione/ossessione e nel giro di 6 mesi l’ho trasformata in un lavoro a tempo pieno. Ho intrapreso la strada della fotografia di moda perché la visione che avevo della fotografia che avevo era molto eterea, femminile, romantica, un po’ fiabesca. Ho iniziato a far carriera abbastanza velocemente: la lista dei clienti si allungava, il cachet saliva, mi sono trasferita a New York e poi ho avuto una crisi di coscienza perché ho capito che con la fotografia di moda contribuivo a creare quegli ideali di bellezza irraggiungibili che ormai conosciamo più che bene e che fanno stare male un sacco di donne di tutte le età.

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Ho deciso di non voler più contribuire a questa macchina “assassina” di autostima e ho capito non mi bastava ammettere di aver fatto un errore, dovevo anche fare ammenda. Quindi mi sono inventata questo progetto che ruota intorno a una domanda che mi ronzava in testa all’epoca: cos’è la bellezza? So che non è quello che costruisco io con le mie foto di moda, anche se noi tutti pensiamo che quella sia la bellezza. Cos’è? Voglio scoprirlo. Nel frattempo avevo iniziato ad appassionarmi ad Anthony Bourdain che aveva questo show sul viaggio sulla CNN e questo show mi ha letteralmente aperto un mondo. Ho capito che oltre NY c’era tutto un mondo da scoprire.

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Così ho unito le due cose: inizio a viaggiare da sola, zaino in spalla, e vado a chiedere alle donne del mondo per loro cos’è la bellezza. A tutte le donne con cui potevo comunicare – perché poi non è sempre possibile – le fotografavo e facevo loro le stesse cinque domande:

  1. Cos’è la bellezza per te?
  2. Cos’è la cosa più bella del mondo?
  3. Cosa rende una donna bella?
  4. Cosa rende una donna non bella?
  5. Ti senti bella?

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Questo progetto, “Quest for beauty”, ormai dura da anni è ancora in corso. È stato molto chiaro molto in fretta che per il 99% delle donne intervistate la bellezza non ha mai niente a che fare con l’aspetto esteriore. Le risposte più comuni a “cosa rende una donna bella?” sono: gentilezza, empatia, sicurezza in se stessa (che è una cosa bellissima). Questo progetto ha suscitato interesse a livello internazionale, ne ha parlato anche la stampa, e nel frattempo ho iniziato a usare Instagram in modo più mirato. Il mio portfolio fotografico è cambiato dalla fotografia di moda alla fotografia di viaggio. Era l’inizio di Instagram, un posto per la creatività, un periodo di transizione verso quello che è oggi, un posto incentrato sull’influencer marketing. Avevo capito che se avessi usato IG in modo più strategico mi avrebbe aiutato nel viaggiare, così ho sviluppato un buon seguito. Anche grazie a questo – che ahimè al giorno d’oggi conta parecchio – sono stata contattata da una grossa ONG italiana a cui piaceva il modo in cui racconto il mondo e mi hanno proposto di andare con loro in India per un progetto sulla violenza contro le donne. Era il mio primo approccio al mondo dei progetti umanitari. Prima viaggiavo sì raccontando anche gli aspetti umani e antropologici, focalizzandomi sulla cultura locale, ma quell’aspetto più umanitario non sapevo neanche cosa fosse. Mi sono trovata dentro e ho capito che ci sono un sacco di realtà che non conosciamo dall’altra parte del mondo ma che è importante raccontare. Da quel momento in poi ho cercato di prendere quella strada, continuando a soffermarmi sull’aspetto local e culturale dei paesi che visitavo, sempre quindi con il viaggio al centro, ma ho iniziato a raccontare più storie che riguardavano le persone e questo mi ha portato dove sono oggi.

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Dove sei oggi è esattamente il punto a cui voglio arrivare, ma prima vorrei fare un passo indietro. Tu hai giustamente iniziato il tuo racconto dal momento in cui ti è stata regalata una macchina fotografica, che è un momento di forte crisi. Una cosa che a me piace molto di te è che non nascondi i tuoi momenti di fragilità. Nel tuo libro “La felicità è una scelta” – non faccio spoiler per chi volesse leggerlo – racconti un momento di grandissima difficoltà. Il libro e il TedX si aprono con l’immagine di te che scali il Kilimangiaro che è il simbolo della fine di un percorso di rinascita ma al tempo stesso l’inizio di un nuovo percorso. Questo fatto del non nascondere le fragilità è molto bello, però ti faccio una domanda scomoda. Nel TedX dici: “Per noi in Occidente è molto facile scegliere di essere felici eppure siamo bravissimi a essere infelici“. Non lo trovi un po’ semplicistico?

Sicuramente sì, ma teniamo conto che è un TedX: hai 18 minuti per tirare fuori tutti i concetti di cui vuoi parlare.

Certo, infatti ho premesso che era una domanda scomoda perché mi rendo conto che è una frase decontestualizzata.

In realtà è una bellissima domanda. Viaggiando vedo altri mondi (perché parliamo veramente di altri mondi, ci sono mondi nei mondi e se non andiamo a vedere una cosa con i nostri occhi è difficile capire, ed è per questo che viaggio così tanto, perché mi interessa vedere con i miei occhi e capire davvero cosa c’è dall’altra parte di uno schermo. La maggior parte di quello che sappiamo è filtrato ed è sempre il punto di vista di qualcuno, l’obiettività non esiste), tra cui l’Iraq che è quella che mi ha toccato di più. Lì ti accorgi davvero che ci sono persone che non hanno nessuna scelta, nessun potere, nessuna possibilità. E lì pensi che per quanto anche da noi abbiamo dei momenti di difficoltà, di dolore (la vita non è semplice, non è mai facile e chi fa credere il contrario è un bugiardo. Ci sono sicuramente dei momenti in cui le cose vanno meglio, ma poi arriva il momento di grande crisi per tutti ed è per questo che io non ho problemi a parlare delle mie fragilità: perché è importante, soprattutto in quest’epoca di ricerca della perfezione, che va bene non stare bene, non essere sempre al top. La perfezione non esiste, siamo tutti umani, fragili, e va bene così, anzi è quello il bello) ma quando vedi chi davvero è in una posizione di completa mancanza di potere ti accorgi che invece tu ne hai un sacco e che per quanto la vita non sia semplice puoi decidere di trarne il meglio e di far sì che nel momento presente io possa agire in modo da poi migliorare la condizione che non mi fa stare bene in questo momento. È un discorso enorme. Basta guardare a come la nostra società è fondata sulla creazione di falsi bisogni.

Ti fa sentire di aver sempre bisogno di qualcosa per essere felice.

Esatto, sempre qualcosa in più di quello ce hai. Magari hai una famiglia bellissima, un partner stupendo, un cane che ti vuole bene, però non hai il lavoro figo, quello status sociale… e così ti senti una sfigata, senti che la tua vita non è bella abbastanza quando invece hai tutto, letteralmente tutto. È una questione di desiderare qualcosa che magari neanche esiste, è solo un’idea. Credo che questo sia anche il motivo del malessere di tante persone: non sentirsi mai abbastanza, perché ci sarà sempre qualcosa che tu non hai e che se dovresti avere perché se non ce l’hai sei uno sfigato.

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Veniamo finalmente al vero focus di questa intervista che sono i tuoi ultimi lavori che sono i due reportage in Iraq. Partiamo da una domanda pratica. Tu sei andata la prima volta con Terres des Hommes e la seconda volta con AVSI. Come funziona, nella pratica? Sei tu che contatti queste ONG o sono loro che ti cercano?

Adesso sono arrivata a un punto in cui fortunatamente è la gente che cerca me, ma anche io mi sono fatta anni di gavetta in cui mandavo 500 mail al mese per trovare dei clienti. Mi contattano loro perché hanno visto i lavori precedenti che ho fatto, per esempio quelli con Action Aid o con Terres des Hommes (con loro, prima dell’Iraq, avevo lavorato in Birmania nella Dry Zone, una terra dove non cresce niente e dove i volontari insegnano a coltivare attraverso le serre idroponiche. Un posto magico, sembra di essere tornati indietro nel tempo di duecento anni in una società rurale fatta di contadini che lavorano con le macine di pietra). Con TDH insomma ci eravamo già piaciuti reciprocamente e quando c’è stata la possibilità di andare in Iraq… anzi, l’idea dell’Iraq è venuta da me perché era una cosa che mi interessava da tanto.

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Come mai?

Perché in Italia c’è tanto razzismo e io mi chiedo sempre il perché e la risposta è sempre la stessa: la paura di ciò che non si conosce. La mia “missione” è un po’ quella di far conoscere realtà che non si conoscono se non attraverso i telegiornali che soprattutto negli ultimi due anni abbiamo visto come non sia vero e umano quel tipo di comunicazione. Invece io ci tengo a far vedere quello che è comunque filtrato dal mio punto di vista, è vero, ma lo faccio nel modo il più umano possibile. Siccome mi dispiace molto vedere tutti i problemi legati al razzismo che ci sono in Italia e tante delle persone che subiscono questo tipo di discriminazione sono rifugiati e quello che a me è sempre stato chiaro è: queste persone non vengono qui a divertirsi, vengono qui perché non hanno scelta. Nessuno lascia tutto quello che ha per divertimento. Quindi volevo vederlo con i miei occhi e capire, nonostante avessi già una mia idea. Non mi fido mai neanche della mia opinione, finché non ci sbatto la faccia io so di non sapere niente. Quindi sono andata là a vedere, a capire chi è davvero un rifugiato. È stato bellissimo, ha superato le mie aspettative. Sono cose che è difficile persino descrivere, quella connessione che si crea anche solo prendendo un tè con una persona nella sua tenda mentre ti racconta la sua storia.

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(Ragazzo rifugiato nei campi in Iraq)

Quando ti raccontano certe storie così terribili – alcune si sentono nel documentario, mi immagino quante altre hai sentito e sai solo tu – cosa puoi dire? Come trovi la forza di reagire a di non andare in pezzi?

È una domanda che mi fanno spesso e all’inizio avevo una risposta un po’ diversa. Adesso, con tutto il bagaglio che ho e penso a tutte le persone con cui ho parlato negli anni, penso: “Ma con tutto quello che hanno subìto loro, come posso permettermi io di dire che non ce la faccio?”. Non esiste. All’inizio, col primo progetto, quello in India sulla violenza sulle donne, è stato una sberla in faccia perché non ero abituata a parlare con una persona talmente orribili che fanno male anche solo a sentirli, poi io sono abbastanza empatica. Diciamo che più esperienza fai più, non dico che perdi l’empatia, però ti fai una corazza: è brutto da dire, ma ti abitui agli orrori del mondo. E poi la mia macchina fotografica è uno scudo tra me e gli orrori del mondo. Quando io sono lì io sto lavorando e per quanto io possa avere a che fare con le persone nella maniera il più umana possibile sto comunque lavorando e non posso permettermi di perdere la testa.

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Ti è mai capitato di piangere?

In India mi era venuto da piangere, ma è come se ci fosse una forza, una voce dentro di me che dice: “Ehi, tu sei qui per un motivo e questo motivo è raccontare una storia. Non c’è spazio per il tuo pianto. Piangere non aiuta questa persona, raccontare la sua storia sì”. Metto la situazione in prospettiva, la guardo con un po’ più non dico di freddezza ma di distanza e mi ricordo che sono lì per fare un lavoro importante, quindi non c’è tempo e non c’è spazio per andare troppo in là con l’empatia, che c’è e deve esserci, ma sei più utile alla persona che hai davanti da lucida e operativa piuttosto che distrutta. Piano piano ti abitui e anzi capisci quanto queste persone siano molto più forte di te. Di recente sono stata in India, a Mumbai e Dharavi che è la baraccopoli più grande dell’Asia. Ho conosciuto questo gruppo di ragazze che fanno parte di una ONG che aiuta i bambini a immaginare un futuro migliore, che non si limiti ai confini dello slum, del tipo: anche se vengo da una baraccopoli, posso fare l’astronauta. Ho condiviso molto di questo sui social e ho ricevuto come riscontro messaggi del tipo “oh poverini”, soprattutto quando ho fatto vedere la foto di una donna che vive in una stanza minuscola con i due figli e il marito e per tutto il giorno lei scuce loghi dai grembiuli e guadagna 80 rupie al giorno, che sono un euro circa. Dopo un po’ capisci che dire “poverini” non aiuta nessuno, anzi, ma che poverini?! Io ho una stima immensa per queste persone perché non so come me la sarei cavata in quella condizione. Non so se avrei quella forza. Quelle ragazze vivono nello slum da quando sono nate ma hanno progetti molto più ambiziosi di quelli che avevo io alla loro età. Ti accordi che hai solo da imparare dagli altri.

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(Uno dei campi visitati da Sara in Iraq)

Tu sei stata in diversi campi in Iraq. Lì che reazioni hai avuto? Soprattutto i ragazzi, ti hanno accolto positivamente o c’era chi era diffidente?

No, assolutamente [niente diffidenza, ndr] in Medio Oriente in generale. Che bello quando le tue presunzioni, i tuoi pregiudizi vengono abbattuti! Questo è il motivo per cui viaggio. Soprattutto dopo l’11 settembre c’è molta islamofobia, si pensa che le persone in Medio Oriente siano pericolose. Niente di più sbagliato. In Iraq, Iran e Giordania ho trovato i popoli più calorosi e accoglienti del mondo. Soprattutto in Iraq sono tutti genuinamente contenti che tu sia lì, ti accolgono, ti offrono il tè (lì in tantissimi Paesi tutto inizia con il tè), ho visto proprio una genuina accoglienza, è stato molto bello, e va dai bambini, agli adulti, agli anziani. L’unica cosa difficile in Medio Oriente è che molte donne non vogliono farsi fotografare, però è comprensibile e bisogna sempre mettersi nei panni degli altri, capire la loro cultura.

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(Bar in Iraq con le fotografie dei caduti in guerra)

Guardando il reportage “Children of the camps” mi hanno colpito tantissimo tre storie, mi hanno veramente spezzato il cuore. Una è quella di Khaled, il bambino con l’osteogenesi imperfetta che sostanzialmente non può essere spostato, toccato, perché ha le ossa troppo fragili.

Però quel ragazzino ha una testa incredibile.

Esatto, ti colpisce proprio perché – lo dico per chi non ha visto il video – fisicamente sembra un bambino piccolo, ma nelle risposte che dà è brillante, simpatico, ti stupisce. Quindi in effetti forse sbaglio io a dire “poverino”, per il discorso che facevamo prima.

Questa del “poverino” è una cosa su cui lavorerò di più anche io in futuro. Quando ti trovi lì davanti dici: “Poverino no”.

In quel caso, così come in quello della ragazza rimasta senza gambe per l’esplosione della bomba, ti viene davvero da pensare che se fosse successo in Italia, in un luogo in cui ha accesso a cure migliori, la sua vita sarebbe stata diversa.

Qui torniamo al discorso: la felicità è una scelta? Perché noi in Occidente ci facciamo tantissime menate? La ragazza senza gambe è davvero una persona solare, bella, serena, serena come io non sono mai stata nella vita e io non ho neanche mezzo dei problemi che ha questa ragazza.

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Tra l’altro, era molto giovane, un’adolescente. Andava a scuola.

Purtroppo ora non riesce più ad andare a scuola perché purtroppo nel campo muoversi con la carrozzina è complicato e in più a trovato questo preside che non la fa andare proprio perché è in carrozzina. È una storia bruttissima. TDH le sta dando un’istruzione informale, ovvero un’istruzione privata che segue lo stesso curriculum di quella statale ma non è riconosciuta a livello legale.

Altra cosa che ho trovato assurda sono tutti quei ragazzini che non possono accedere all’istruzione perché non hanno documenti, magari perché li hanno persi o lasciati scappando dalle proprie città in guerra, o perché ormai sono “fuori età”. Tante cose che davvero uno neanche immagina e che non puoi sapere se non vai lì o se non c’è qualcuno che te le racconta.

Questo è stato l’aspetto più frustrante di quello che ho imparato con questo progetto, perché ti rendi conto davvero di quanto la burocrazia sia una cosa inutile, anzi, persino malvagia. Prendiamo come esempio il caso di Abder Ahman, il ragazzo poeta.

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(Abder Ahman)

Altra storia che ti spezza il cuore.

Sì, mi ha abbastanza distrutta.

Spiego per chi non ha visto il video: questo ragazzo è rimasto orfano e ti ha raccontato che ha raccontato il suicidio 18 volte.

E in che modi…

Sì, non entriamo nei dettagli ma già pensare che lo abbia tentato una volta ti spezza il cuore. Pensare che l’ha fatto 17 volte a soli 18 anni è terribile.

TAGLIARE QUI CIRCA MIN 31, RIPRENDERE CIRCA MIN 32

Abder Ahman ha 17 anni e fa il poeta, sai uno di quei poeti nati che nascono con quella luce diversa negli occhi, ha quella scintilla di genio in sé. Lui ha assistito all’omicidio del padre da parte dell’Isis, un trauma che non possiamo neanche immaginare. Ha 5 fratelli e sorelle più piccole, la madre è ancora viva e lui si deve prendere cura di loro perché è l’unico uomo di casa rimasto. Loro vivevano a Mosul, quando la situazione è peggiorata sono dovuti scappare nei campi, nessuno di loro ha i documenti perché sono scappati in fretta e furia. Lui ora si ritrova in questo campo a doversi prendere cura di tutta la famiglia anche con delle pressioni sociali e culturali addosso, perché in Medio Oriente se sei l’uomo di casa e non sei in grado di prenderti cura anche economicamente di cui vergognarsi. Non può andare a scuola perché non ha i documenti, non può lavorare perché è minorenne e in più senza un diploma non riesce a trovare lavoro. Chi vive nei campi, poi, non può entrare e uscire come e quando vuole. Sono tutte situazioni burocraticamente molto complicate. Si sente impotente. Voleva solo andare all’università, voleva scrivere, e invece si ritrova in questa situazione e non sa come affrontarla, continua a tentare di uccidersi perché non regge la pressione. È un peccato in ogni caso, ma ancor di più qui… Quando gli parli e lo guardi negli occhi capisci che è una persona intelligentissima, che ha una marcia in più e che in una situazione giusta avrebbe avuto chissà che futuro. Invece il futuro gli è stato tolto. La frase che mi ha detto e che più mi ha colpito è stata “mi hanno rubato l’adolescenza, non ho neanche avuto la possibilità di averla o di fare quello che fanno gli altri ragazzini. Ho dovuto farmi carico di cose che non sarebbero dovute essere carico mio”. E questa cosa dell’istruzione, a parte la questione documenti, l’altra parte molto brutta è che chi ha perso degli anni a scuola perché è iniziata la guerra, magari tu facevi la prima media ma per 2-3 anni non sei potuto andare a scuola per la guerra, adesso siccome ai perso quegli anni non puoi tornare nella classe che facevi prima perché sei troppo vecchio. Chi supera un certo limite di età non può andare da nessuna parte.

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Assurdo.

È assurdo perché chissenefrega se hanno 2-3-4 anni in più, falli studiare! In questo caso però è una decisione del governo iracheno che fa le regole.

Paradossalmente – forse è un pregiudizio mio, da occidentale – ci si aspetterebbe meno burocrazia proprio perché in Iraq la situazione è straordinaria. Mi aspetterei delle regole, invece il fatto che siano così inflessibili mi ha veramente colpito.

Per la prima volta mi sono sentita veramente frustrata e inutile. Ci ho messo un po’ a capire questa cosa, pensavo di aver capito male, poi invece più capivo più pensavo: oh mio Dio, quanti ragazzini sono bloccati in questi campi, a quanti è stato tolto il futuro sia dalla guerra, sia, dopo essere finiti nei campi, dalla burocrazia. Per fortuna ci sono le ONG, perché senza di loro queste persone sarebbero veramente senza speranza. Io do sempre ai miei lavori un’impronta di speranza, ma questa volta ho fatto fatica a trovarla. L’unica speranza sta nei fondi internazionali e negli aiuti che vengono dati alle persone nei campi. Se questi aiuti venissero tolti, queste persone dovrebbero tornare nelle case che non hanno più.

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(Mosul)

Come le famiglie tornate a Mosul che hai mostrato nel secondo reportage, “Un altro viaggio in Iraq”. È una cosa incredibile: hanno lasciato i campi per tornare in città che di fatto non esistono più, in una condizione di totale distruzione.

Esatto. Non ero stata a Mosul nel mio primo viaggio in Iraq, ci sono stata solo nel secondo, a ottobre 2021. Ormai è difficile che mi impressioni, ma a Mosul siamo andati nella parte est della città, una parte completamente distrutta, fatta solo di macerie. Lì ti rendi davvero conto di quanto è vergognosa la guerra, di quanto non crei altro che distruzione. E in mezzo a questa distruzione c’è gente che ci vive. Immagina vivere lì, svegliarti, uscire dalla porta di casa ed essere circondato da distruzione. Per me è impensabile. E le condizioni in cui vivono in questi quartieri teoricamente in fase di ricostruzione sono pessime, non è una vita facile.

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Prima hai parlato dell’importanza dei fondi internazionali. Entrambi i tuoi viaggi in Iraq sono stati “post Covid” (tra mille virgolette perché sappiamo tutti che la pandemia non è finita, ma insomma, quando è stato possibile riprendere a viaggiare). Ti hanno detto se con la pandemia c’è stato un calo di fondi?

Non ne abbiamo parlato approfonditamente. So che per quanto riguarda i campi (con AVSI ho fatto un lavoro diverso, con i contadini che hanno perso le loro fattorie perché distrutte dall’Isis e AVSI li ha aiutati a ricominciare) non c’entra tanto la pandemia quanto il governo iracheno che vuole chiudere i campi, soprattutto quelli per sfollati interni perché la fase di “grande emergenza” c’è stata dal 2014 al 2017, quando c’è stato il maggior flusso di rifugiati. Adesso per il governo non è più un’emergenza e non è una cosa piacevole con cui avere a che fare, quindi stanno cercando di chiuderli. Solo che chiudendoli…

Le persone non spariscono solo perché chiudi i campi.

Tante persone non hanno un posto dove tornare.

Che poi è il punto di tutti i fenomeni migratori: non è che se mandi via le persone queste spariscono dalla faccia della terra. Da qualche parte devono andare.

Esattamente. Nel Kurdistan ci sono ancora tanti campi, ma nell’Iraq federale li hanno chiusi quasi tutti. Non c’entra il Covid, è un problema interno, burocratico e politico, anche se sicuramente la pandemia non ha aiutato le cose.

Per chiudere volevo chiederti se hai intenzione di tornare in Iraq o comunque in quelle zone e in generale se hai dei viaggi in programma – se puoi, perché so che gli “spoiler” non sempre sono fattibili.

No, dai, qualcosina posso dire [ride, ndr]. In Iraq mi piacerebbe tornare ma anche perché ho sviluppano degli affetti. Viaggiando come viaggio io è impossibile non fare amicizia, non affezionarsi alle persone. Ci sono un paio di ragazzini che ho conosciuto nei campi che mi piacerebbe seguire, tornare in futuro per vedere come stanno, soprattutto Abder Ahman e Jamila, un’altra ragazzina che non può andare a scuola. Loro mi sono rimasti nel cuore.

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Anche Jamila ha tentato diverse volte il suicidio, se non sbaglio.

Sì, stessa situazione di Abder Ahman, tolto il fatto di doversi prendere cura della famiglia. Voleva studiare, voleva fare l’insegnante, ma l’Isis le ha tolto questa possibilità. Adesso è in uno degli ultimi campi che hanno costruito, un campo tendato, e vuole solo andare a scuola ma non può andare per via del limite di età e si sente che le è stato rubato il futuro e non riesce a coesistere con questa cosa. Loro due… ogni tanto penso che vorrei comprargli almeno dei libri. Mi sento proprio inutile, vorrei fare qualcosa nel lungo termine, ma come fai?

Forse non è molto consolatorio, ma io credo che qualcosa tu lo stia già facendo. Se se ne parla, se siamo qui a parlarne, la gente ha visto i tuoi video, hai raccontato le loro storie. So che vorresti fare di più, ma però è già qualcosa.

Quello che mi mette un po’ il cuore in pace è che anche se io non raggiungo grandi numeri [di follower e views, ndr] vedo il riscontro diretto [dalle persone che mi seguono, ndr]. Anche solo il messaggio della persona che prima aveva un miliardo di pregiudizi e una buona dose di razzismo e dopo aver visto Children of the camps mi ha scritto: “Non avevo capito niente, ho cambiato idea”. Quello per me vale molto. È per questo che faccio tutto in maniera molto umana. Non sono una giornalista, non ho nessun valore istituzionale ma so fare le cose in maniera molto umana e so che quello che faccio arriva alla ragazzina di 14 anni come all’idraulico 60enne, quindi sono abbastanza contenta di vedere l’effetto che ha il mio lavoro sulle persone perché è un effetto molto umano e per me conta questo. Per quanto riguarda i prossimi viaggi, se tutto va bene (questa è una grande costante ultimamente) il prossimo mese dovrei essere in Kenya per girare un documentario.

MIN 46.26 TAGLIARE NOME “THE GOOD INFLUENCER”

Non sarò io a girarlo ma parteciperò come esempio di influencer che usa i social per fare del bene. Poi c’è sempre il grande progetto di portare in video l’amore che ho per il mondo. Ci sto ancora lavorando. Penso che quest’anno parte del mio lavoro sarà trasformare Quest for beauty in formato video, partire da Quest for beauty per arrivare ad Ask a local che vorrei fare un giorno. Però Quest for beauty è un buon punto di partenza, partire dal discorso della bellezza. In India ho girato il primo segmento partendo dal fatto che lì lo sbiancante per la pelle è il prodotto di bellezza più venduto.

Questo la dice lunga…

Da lì voglio arrivare a parlare di bellezza in senso più ampio, perché se abbiamo visto che la bellezza non è quella fisica allora cos’è? Parliamo di bellezza della vita e della diversità che c’è nel mondo.

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