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Saved: Bond torna in scena al teatro Vascello con lo sguardo critico di Gianluca Merolli

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Si avvicina il giorno della prima al teatro Vascello e c'è molta tensione. Le ventiquattr'ore che restano servono a fugare gli ultimi dubbi. La parola a Gianluca, che si è messo a nudo prima delle prove generali. Da quanto stai lavorando sul testo di Bond? Siamo a quasi un anno di produzione, ...

Si avvicina il giorno della prima al teatro Vascello e c’è molta tensione. Le ventiquattr’ore che restano servono a fugare gli ultimi dubbi. La parola a Gianluca, che si è messo a nudo prima delle prove generali.

Da quanto stai lavorando sul testo di Bond?
Siamo a quasi un anno di produzione, con sei settimane di allestimento, dopo un paio d’anni di lavoro. Il Vascello ha deciso di impegnarsi in questo percorso che ha coinvolto diverse professionalità, e per molti è un debutto.

Quali sono gli elementi cardine dello spettacolo? Si può parlare di Edipo al contrario?
E’ una parabola sulla morte dell’innocenza, con dinamiche che coinvolgeranno lo spettatore, poiché lo riguardano molto da vicino. Diciamo che tutta la società è sul banco degli imputati, perché è costretta a ricorrere agli strumenti della crudeltà per sopravvivere. In questo caso è difficile individuare buoni e cattivi: la divisione diventa molto sottile, e si percepiscono le responsabilità di un mercato che non guarda in faccia nessuno.

Ma non è troppo generico dare la colpa al capitalismo, secondo te? Insomma, esistono dei volti a cui poter dare delle responsabilità?
Bond è un autore che ha scritto decine di testi, nei quali c’è sempre stato un colpevole. Politica, scuola, giornalismo, militari e tutti coloro che dovrebbero educare: ecco chi viene messo sul banco degli imputati. Non in modo sfacciato, però, perché viene data allo spettatore la possibilità di interrogarsi e di capire quali mezzi ha per ricostruirsi. In questo caso i genitori hanno una grossa responsabilità, perché non sono riusciti a guidare i propri figli.

Sembrerebbe una visione pessimista. Sei riuscito in qualche modo a impostare una via d’uscita?
Certamente, e infatti lo spettacolo non è affatto pessimista perché si chiude con una speranza, con una ricostruzione.
Ci credo molto perché porta lo spettatore a riflettere sul concetto di innocenza, nel caso specifico quella di un bambino, che rappresenta poi la parte più intima e indifesa che ognuno di noi possiede. Spero che il pubblico si interroghi sul percorso umano che sta affrontando.

Da quel che abbiamo letto ci saranno scene molto forti. Secondo te il pubblico italiano è pronto a recepire?
Credo che il pubblico sia sempre pronto, anzi, che abbia bisogno di fare chiarezza su certe posizioni. D’altronde sono temi che si affrontano da millenni, basti pensare alla tragedia classica. La differenza è che c’è la speranza di poter aggiustare qualcosa che si è rotto.

Essendo ambientato a Londra, il testo è in cockney, il dialetto londinese. Voi lo avete riportato in romanesco?
In questo spettacolo il cockney è stato tradotto e riadattato da Tommaso Spinelli, che ha fatto un lavoro magnifico. Nell’immaginario italiano associamo il dialetto a un clima malavitoso, ma non è questo lo scenario in cui volevo relegare lo spettacolo. Volevo che fosse universale e applicabile a qualsiasi periferia italiana, nonostante sia ambientato a Londra.

Cos’hai in serbo per il futuro?
Ho nel cassetto due testi, e vorrei continuare ad approfondire la contrapposizione tra bene e male, la questione umana del salvarsi o del rovinarsi. Nella prossima stagione riprenderò uno spettacolo su cui ho già lavorato: “Due atti senza vedere”, tratto da “La musica dei ciechi” di Raffaele Viviani e “Occhiali neri” di Eduardo De Filippo.

A cura di Roberta Biondi e Paolo Cocuroccia