> > Se fossi molisana non potrei abortire, ma non serve vivere lì per avere paura

Se fossi molisana non potrei abortire, ma non serve vivere lì per avere paura

dtffik6w4aaajxa

Chissà quanti chilometri deve fare, quante difficoltà deve affrontare, quanti no deve sentire e quante umiliazioni deve subire una donna prima di riuscire - forse - a raggiungere il suo obiettivo.

Era il 22 maggio 1978 quando l’Italia ha per la prima volta – e finalmente, aggiungerei – depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all’aborto. Prima di quel giorno, chiunque praticasse l’interruzione volontaria di gravidanza e la donna che vi si sottoponeva (consenziente o meno) era considerato punibile per legge con una pena che andava da sei mesi a 12 anni. Chi voleva abortire doveva rivolgersi alle cosiddette mammane, a medici e infermieri disposti a infrangere la legge o a figure rivoluzionarie come Emma Bonino.

E allora non esisteva la pillola del giorno dopo, la RU-486 né gli strumenti per il moderno raschiamento. Avete presente i raggi della bicicletta che magari usate tutte le mattine per andare al lavoro o per fare sport? Ecco, quelli erano uno dei più diffusi e famigerati strumenti per interrompere gravidanze indesiderate. Con tutti i rischi che potete facilmente immaginare. Ma anche il ferro da calza e l’infuso di prezzemolo che provocava emorragie andavano benissimo. Di aborto, anche in Italia, fino a quarant’anni fa si moriva.

Ma a partire dal 1978 è cambiato tutto, no? Da quel giorno finalmente tutte le donne d’Italia sono libere di decidere del proprio corpo e del proprio destino. Giusto?

Non proprio. Innanzitutto perché anche la 194 ha i suoi limiti: la donna può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Inoltre, dal momento in cui la donna si presenta dal medico chiedendo di abortire, questi, prima di accontentarla, deve esaminare e proporle possibili soluzioni alternative, aiutarla alla rimozione delle cause che porterebbero all’interruzione di gravidanza e invitare a soprassedere per una settimana. Un invito esplicito a ripensarci, insomma. E non lo dico io, lo dice il Ministero della Salute.

Ma soprattutto l’Italia è ancora disseminata di obiettori di coscienza, medici che – più spesso che no – si nascondono dietro la religione e gli scrupoli di coscienza per evitare di fare ciò che hanno giurato al momento della laurea: “di curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna”, di non “abbandonare la cura del malato”, “di perseguire con la persona assistita una relazione di cura fondata sulla fiducia e sul rispetto dei valori e dei diritti di ciascuno”, “di attenersi ai principi morali di umanità e solidarietà nonché a quelli civili di rispetto dell’autonomia della persona”.

E allora perché in Molise è praticamente impossibile abortire? L’IGV è praticabile in un solo ospedale, il Cardarelli di Campobasso, dove l’ormai famoso dottor Michele Mariano ha resistito stoicamente ben oltre il limite della pensione per garantire alle donne molisane di esercitare quello che è un loro diritto garantito dalla legge. Ma anche gli eroi invecchiano, o meglio, gli viene reso impossibile prorogare oltre il pensionamento. E così a partire dal primo gennaio 2022 sarà costretto a lasciare il suo lavoro, cedendo il posto a una nuova eroina, anche lei sola, anche lei controcorrente: la dottoressa Giovanna Gerardi.

Giovanna non sarebbe dovuta, però, restare sola e controcorrente. Ma al concorso bandito dall’Asrem, l’azienda sanitaria regionale del Molise, non si è presentato nessuno. Per ben due volte. Perché? Perché “chi fa aborti non fa carriera. In Italia c’è la Chiesa, e finché ci sarà il Vaticano che detta legge questo problema ci sarà sempre” aveva spiegato dottor Mariano a Repubblica.

E se pensate che il Molise sia un caso isolato, svegliatevi dal sogno, scacciate l’illusione e sappiate che non è così. Le statistiche bocciano anche la tanto decantata sanità lombarda e l’intera penisola in generale. Secondo i dati raccolti e diffusi a ottobre 2021 dall’Associazione Luca Coscioni, in Italia almeno in 15 ospedali il 100% dei ginecologi è obiettore (ma “nel frattempo questi ospedali sono saliti a più di 20”, sottolinea la professoressa Chiara Lalli). Lo ripeto: il 100%. Tradotto: lì nessuna donna può abortire e chissà quanti chilometri deve fare, quante difficoltà deve affrontare, quanti no deve sentire e quante umiliazioni deve subire prima di riuscire – forse – a raggiungere il suo obiettivo. Oltre al Molise, ci sono ospedali completamente obiettori in Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Basilicata, Campania e Puglia. In altre 20 strutture oltre l’80% del personale medico è obiettore. Tutto questo sebbene la legge 194 vieti espressamente la cosiddetta “obiezione di struttura.”

Sono passati quasi 44 anni da quel rivoluzionario 1978 eppure ancora oggi una donna in Molise praticamente non può abortire. In un noto ospedale di Monza – secondo la testimonianza raccolta da una partoriente e da un medico specializzando – non viene praticato il cesareo se non in casi di vita o di morte (della donna o del bambino, viene da chiedersi?) perché il parto vero è quello naturale. Anna (nome di fantasia), un’ostetrica lombarda oggi in pensione, ha operato innumerevoli interruzioni di gravidanza per sostituire le college obiettrici, o meglio, che si nascondevano dietro l’obiezione di coscienza per non rischiare il posto e la carriera.

Siamo sicuri di essere nel 2021? Da donna queste storie e queste percentuali mi fanno paura. E a voi?