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Sonia, la baby jihadista che vuole tornare in Italia

Sonia Khediri, la baby jihadista pentita

Le parole di Sonia Khediri, la giovane magrebina di Treviso che si è unita alla jihad a 17 anni e ora, dal campo di Raqqa, si dice pentita.

All’apparenza Sonia Khediri potrebbe sembrare una delle tante donne fedeli a Daesh, lo Stato islamico. Ma la sua storia ha qualcosa di particolare: a soli 17 anni è fuggita dalla sua casa, dalla sua famiglia, in provincia di Treviso per unirsi al Califfato. Oggi di anni ne ha 21 e vive insieme ai figli nel campo curdo di Heyn Issa, in Siria, dove è tenuta prigioniera dopo essere stata catturata con la conquista di Raqqa. Alle telecamere del Giornale racconta di voler tornare a casa ma di aver paura di finire in carcere perché per tutto il mondo è una terrorista. “Con Daesh ho perso tutto: la mia vita e mio marito”. E a chi vuole intraprendere il suo stesso viaggio verso Daesh, dà un consiglio: cambiare idea.

Sonia Khediri, la baby jihadista

Aveva solo 17 anni quando ha deciso di abbandonare la sua famiglia, di dimenticare tutto ciò che era per unirsi allo Stato islamico. Sonia Khediri, giovanissima di origine magrebina, viveva in Italia, in provincia di Treviso. È lì, tra le pareti della sua casa così lontana dalla guerra, che ha sentito per la prima volta il fascino di Daesh, il Califfato, e della guerra santa. È partita alla volta della Turchia e poi della Siria, dove ha sposato un uomo e ha avuto due bambini. Poi la vita nello Stato islamico, i bombardamenti, la conquista di Raqqua, fino al campo di Heyn Issa, in Siria, dove è tenuta prigioniera dai curdi insieme ai suoi bambini e a molte altre donne nella sua condizione.

Sonia ha deciso di raccontare la sua storia al Giornale, ripercorrendo gli ultimi anni della sua vita. Lo fa restando sempre coperta dal niqab, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi. Prima di cominciare si sistema il velo, con un’attenzione al dettaglio che rivela il suo background occidentale.

Il fascino di Daesh

Ho amato Daesh pensando di fare la scelta giusta ed invece ho perso la mia vita”, dichiara parlando dello Stato islamico. Lo ha amato senza conoscerlo, solo per sentito dire, solo attraverso le immagini trasmesse in Italia. È rimasta affascinata soprattutto dalle figure femminili, così nere e austere nei loro niqab ma libere di girare per le città del Califfato e di vivere la propria vita secondo i principi della jihad. “Mi sono convinta ad aderire allo Stato islamico perché nei video che giravano a Raqqa le donne uscivano con il niqab. Volevo vivere come loro“.

Il marito

Ma per convincerla sono state fondamentali le parole dell’uomo che poi è diventato suo marito: Hamza Al Abidi, di origine tunisina. “Eravamo in contatto via Facebook. È mio marito che mi ha spinto a lasciare l’Italia”. Seguendo le sue indicazioni, Sonia ha lasciato l’Italia ed è arrivata in Turchia, dove ha raggiunto Hamza al confine con la Siria, a Gaziantep. Lì si sono sposati e hanno cominciato la loro vita insieme, “mio marito andava sempre in moschea ed io indossavo il niqab”. Ma la tranquillità è durata poco: “Hanno capito che volevamo aderire a Daesh. E così nel 2015, qualche mese dopo avere partorito mia figlia ci hanno portato a Raqqa“.

La vita a Raqqa

La prima cosa che dice parlando di Raqqa è: “La cosa bella di Daesh è che ero libera. Adesso che sono prigioniera dentro il cuore mi manca quella libertà”. Nel Califfato, Sonia ha cercato di vivere come una brava moglie e madre islamica. Un’immagine pacifica e normale che stona con le foto del suo nome scritto con i proiettili del kalashnikov o che la ritraggono col niqab e una mitragliatrice in mano (anche se la ragazza nega di essere la donna nella foto).

La sua provenienza la fa notare. “A Raqqa mi chiamavano Um Jenen, la madre di Jenen, l’italiana”. Pensava di essere l’unica jihadista della penisola, ma “poi ho sentito che c’era un’altra ragazza di Padova, ma non ci siamo mai incontrate”. Durante l’intervista, a fianco di Sonia è seduta un’altra ragazza magrebina che ha lasciato l’Italia per Daesh. Sonia spiega che l’amica ci tiene a salutare gli zii, che vivono a Napoli e a Brescia.

Gli orrori del Califfato

Com’è possibile che il suo amore per Daesh non si sia spento a Raqqa, davanti a tanto orrore? Le decapitazioni, le teste mozzate, il terrore esercitato dai mujaheddin. Sonia spiega di non aver creduto a tutto ciò, neanche davanti alle foto mostratele dal marito. “Pensavo non fossero veri, che non erano loro ad agire in questa maniera”. Poi racconta un episodio: “Un giorno andando al mercato ho visto un uomo appeso. Era già morto, ma lo avevano lasciato così”.

Sonia è costretta ad ammettere che neanche i giorni a Raqqa erano così felici come aveva immaginato. “I raid della coalizione alleata erano continui. Quando abitavo nella via dei Treni gli americani hanno bombardato molto vicino. Alle 11 di notte il cielo si è illuminato di rosso e abbiamo sentito arrivare 20 missili, uno dietro l’altro, boom, boom, boom. Era tutto distrutto, ma grazie ad Allah siamo sopravvissuti”.

La morte del marito

La moglie di uno dei mujaheddin ha dichiarato che Hamza El Abidi, il marito di Sonia, era un emiro, ovvero il numero due della città di Raqqa. La ragazza nega che il marito abbia avuto un ruolo di primo piano nel Califfato. “Ha lavorato qualche mese con il Diwan el Talim (un dipartimento dell’istruzione religiosa) per trovare case, appartamenti dove ospitare e far studiare i bambini di Daesh”. Racconta poi che la morte del marito è avvenuta durante un bombardamento a Raqqa con un drone.

Proprio la morte del marito le ha aperto gli occhi sullo Stato islamico. “All’inizio ero contenta che Daesh si espandesse convinta che fosse la volontà di Allah, ma poi vivendo a Raqqa ho capito che non era vero. I mujaheddin non sono più suoi fedeli servitori. È per questo che hanno perso. Amano solo uccidere“. Lancia un appello a tutte le persone che, come lei, si sono fatti irretire dalle promesse del Califfato. “Ai tanti giovani che in Europa credono ancora in Daesh posso solo dire di cambiare idea“.

Prigioniera a Heyn Issa

La vita di Sonia è radicalmente cambiata il 21 gennaio. In quella data, la ragazza e i suoi due figli sono stati catturati dall’esercito curdo e portati a Heyn Issa. Lì, a nord di Raqqa, c’è un grande campo profughi. In una zona sorvegliata e inaccessibile a giornalisti e telecamere sono tenute prigioniere tutte le donne (con i relativi bambini) che hanno giurato fedeltà al Califfato. “I curdi mi hanno catturata assieme ad altri”, racconta Sonia. “Le donne sono state subito separate dagli uomini e ci hanno portato via tutto, ma non mi hanno fatto del male“.

La cattura è avvenuta nel momento in cui lei, insieme a migliaia di altre persone, organizzavano la fuga da Daesh. “Volevamo andare tutti in Turchia, l’unica strada per uscire della Siria e proseguire verso l’Europa ed il proprio Paese”. Ha venduto tutto ciò che aveva per ottenere l’aiuto di un passeur, ma inutilmente. Le parole di Sonia confermano il timore di un possibile massiccio rientro di ex jihadisti volontari in Europa.

Oggi Sonia si dice pentita di essersi unita allo Stato islamico. “Con Daesh ho perso tutto: la mia vita e mio marito. Adesso sono prigioniera ed una terrorista agli occhi del mondo“. Vorrebbe tornare in Italia, dalla sua famiglia, ma sa che su di lei pende un’accusa come terrorista internazionale.