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"Meredith non l'ho uccisa io": Rudy Guede torna a raccontare la sua versione dei fatti

Rudy Guede

Rudy Guede, intervistato dal Corriere della Sera, è tornato a parlare dei fatti del 1° novembre 2007 e ha raccontato la sua nuova vita.

Rudy Guede, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher del 1° novembre 2007, a Perugia, è tornato a parlare di quanto successo al Corriere della Sera.

La nuova vita di Rudy Guede

Rudy Guede, cittadino ivoriano oggi 35enne, è stato l’unico condannato per la vicenda, per omicidio e violenza sessuale. Uscito dal carcere il 22 novembre 2021, ora ha una nuova vita. Al mattino lavora presso il Centro studi criminologici di Viterbo, mentre nel pomeriggio e in serata fa il cameriere in una pizzeria. Gli manca solo la tesi per conseguire la laurea magistrale in Società e ambiente e sta cercando una casa per andare a convivere con la fidanzata.

“Io non ho ucciso Meredith

Rudy Guede con il Corriere della sera è tornato sui fatti del 1° novembre 2007. “Io c’ero in quella casa, chi lo nega? C’erano le mie tracce sul luogo del delitto, certo. Mica stavo fermo in un angolo. Ma l’ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla giustizia: io non ho ucciso Meredith“, ha ribadito Guede.

“Il mio libro (Il beneficio del dubbio, scritto con Pierluigi Vito, ndr) spiega come si arriva all’accusa di violenza, dubbi e incongruenze comprese. La sostanza è che è stato trovato il mio Dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti“, ha spiegato l’ivoriano.

“Forse sono il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo”

“Nelle mie sentenze c’è scritto: in concorso con Amanda Knox (che divideva l’appartamento con Meredith Kercher, ndr) e Raffaele Sollecito, e nessuno dei giudici mi ritiene autore materiale del delitto. Poi loro due vengono assolti. Hanno respinto la revisione del mio processo, ma è un controsenso logico. La giustizia italiana dice che ho compiuto un crimine con due persone specifiche ma non come autore materiale; loro escono di scena, quindi il carcere lo sconta una persona che non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo“, ha dichiarato Rudy Guede.

“Sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva”

Rudy Guede ha inoltre detto di sentirsi ancora in colpa per essere scappato senza chiamare i soccorsi per Meredith Kercher, forse ancora viva. “La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi. Ma avevo 20 anni e avevo davanti una ragazza agonizzante, l’ho soccorsa ma poi la mente è andata in tilt. Magari sarebbe morta lo stesso, ma non aver chiesto aiuto resta la mia grandissima colpa”, ha raccontato.

“Ero uscito dal bagno dopo aver sentito un urlo potente malgrado avessi le cuffiette con la musica a palla; nella penombra avevo visto uno sconosciuto con un coltello in mano. ‘Andiamo via che c’è un negro’, aveva detto ad Amanda. All’improvviso il mio cervello è scoppiato. Io non avevo fatto niente, ma chi mi avrebbe creduto? E allora, in preda al panico, ho fatto un errore dopo l’altro…Un comportamento criticabile, è vero. Ma questo non fa di me un assassino“, ha proseguito Guede, che senza successo, ha provato a contattare la famiglia della vittima.

“Scrissi una lettera anni fa rimasta senza risposta. E ho fatto avere a sua madre un altro messaggio di recente per dirle ancora una volta del mio dispiacere per Mez e che le mie mani si sono macchiate di sangue, sì, ma soltanto per soccorrerla. Mi farebbe piacere incontrarla, un giorno“, ha detto.

“Ascoltare le persone è fondamentale. Una salvezza”

Rudy Guede ha infine ricordato un momento particolarmente difficile che ha vissuto in carcere: “Un giorno sono rientrato dall’ora d’aria e ho guardato dallo spioncino: il mio compagno di cella si era impiccato. Ho urlato disperato per far aprire la porta; per la seconda volta in vita mia avevo davanti una persona morente… un uomo solo. Lì ho capito che ascoltare le persone è fondamentale. Una salvezza“.

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