Grande, grandissima la tradizione degli Stati Uniti nel mondo del calcio femminile. Dal primo campionato del mondo, organizzato nel 1991 in Cina, nelle otto edizioni disputate le statunitensi hanno conquistato il podio in ben sette occasioni, salendo sul gradino più alto tre volte (1991, 1999, 2015). L’ascesa al potere e all’egemonia mondiale è particolarissima. Negli Usa il calcio maschile è uno sport poco praticato e seguito: basket, football americano, hockey e baseball ne fanno assolutamente da padroni.
Quello che più fa riflettere sul movimento calcistico americano è proprio questo: se la sfera maschile è completamente ignorata, quella femminile riscuote sempre più successo. La differenza di crescita di questo sport rispetto al panorama europeo è evidente. Nel vecchio continente il calcio femminile è in continua e lenta crescita da anni, ma rimane e rimarrà sempre una piccola ombra rispetto a quello maschile. Al contrario, negli Stati Uniti, il movimento è diventato subito un fenomeno unico e indipendente.
Il tanto agognato professionismo
Il problema legato al professionismo delle calciatrici non ha matrice solo italiana: anche negli Stati Uniti il calcio femminile non è ancora riconosciuto come uno sport professionistico. I movimenti di protesta sono in atto e sembra che, una volta per tutte, tutto possa finalmente cambiare. I dati portati dagli organizzatori delle proteste sono eloquenti: la nazionale di calcio femminile crea molti più introiti rispetto a quella maschile.
Nel biennio 2016-2018 le attività di calcio femminile hanno fatturato circa 50,8 milioni di euro, contro i 49,9 milioni della nazionale maschile. Un dato che parla chiaro. Le proteste e le richieste delle calciatrici continuano imperterrite. A soli tre mesi dall’inizio dei Mondiali di Francia, infatti, tutte le calciatrici della nazionale statunitense hanno presentato una causa per discriminazione di genere nei confronti della loro federazione.