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Nel cuore della crescente crisi del Sudan, i campi di sfollati non rappresentano più solo un rifugio per chi fugge dall’inferno della guerra, ma si sono trasformati, tragicamente, in bersagli diretti di un conflitto che diventa ogni giorno più brutale. Mentre carestia ed epidemie colpiscono la popolazione, gli sfollati si trovano esposti ai bombardamenti aerei indiscriminati, alle armi chimiche e agli attacchi di gruppi armati estremisti sostenuti da attori regionali.
Droni turchi… nei cieli della sofferenza
Secondo numerosi rapporti sui diritti umani, le forze armate sudanesi utilizzano droni turchi “Bayraktar TB2” per condurre attacchi aerei nelle aree di sfollamento, in particolare nel Darfur e nel Kordofan.
L’uso intensivo di questi droni ha suscitato una condanna diffusa da parte delle organizzazioni umanitarie, poiché tali raid vengono spesso condotti senza distinzione, causando vittime civili, tra cui donne e bambini.
Un rapporto pubblicato a giugno dall’organizzazione internazionale CIVIC ha indicato che “oltre il 60% dei bombardamenti effettuati da marzo ha colpito aree residenziali o campi di sfollati, con il coinvolgimento di droni di fabbricazione straniera”, evidenziando in particolare “un modello ricorrente di utilizzo dei droni turchi Bayraktar negli attacchi contro Jebel Marra e Nyala.”
Accuse di uso di armi chimiche
Ancora più grave è l’accusa ufficiale rivolta a maggio dal Dipartimento di Stato statunitense contro l’esercito sudanese per l’impiego di armi chimiche contro civili durante le battaglie nel Kordofan Occidentale e nel Darfur Settentrionale.
La portavoce del Dipartimento, Tammy Bruce, ha dichiarato che “gli Stati Uniti hanno ottenuto informazioni affidabili che confermano l’uso da parte delle forze governative di munizioni chimiche in aree popolate, in violazione diretta della Convenzione sulle armi chimiche.”
Il comunicato del Dipartimento ha annunciato un pacchetto di sanzioni, tra cui il divieto di aiuti non umanitari, il blocco delle licenze di esportazione e la sospensione del sostegno delle istituzioni finanziarie internazionali. Misure che osservatori hanno definito come “un’escalation significativa” contro l’esercito sudanese e non solo contro il suo leader, Abdel Fattah al-Burhan.
Milizie alleate dell’esercito… una minaccia interna
Parallelamente, emergono minacce interne rappresentate dalla crescente influenza delle fazioni islamiste estremiste alleate dell’esercito, che stanno assumendo un ruolo sempre più attivo nel conflitto.
Secondo un’inchiesta di Human Rights Watch pubblicata a luglio, queste milizie sono accusate di gravi violazioni nei campi di sfollati, tra cui esecuzioni sommarie, reclutamenti forzati e sfollamenti organizzati.
Il membro dell’alleanza “Tassis”, il dott. Alaa Naqd, ha dichiarato a metà giugno a “Sudan Now” che “quanto sta accadendo oggi in Darfur e Kordofan è il risultato della strategia di al-Burhan di armare le milizie ideologiche, legandole a un progetto regionale guidato da Ankara e Teheran, volto a mantenere le forze dell’Islam politico nelle strutture di sicurezza e militari dello Stato.”
E aggiunge: “Non stiamo assistendo a una semplice guerra civile, ma a un progetto di riciclaggio della distruzione jihadista armata con il sostegno di potenze regionali.”
Sostegno regionale: Turchia e Iran sulla scena
I rapporti indicano chiaramente un coordinamento turco-iraniano a sostegno degli alleati dell’esercito sudanese: mentre la Turchia fornisce droni ed esperti militari tramite intermediari della sicurezza, l’Iran invia armi e supporto logistico a gruppi islamisti radicali alleati delle forze sudanesi, secondo un’inchiesta pubblicata a maggio da Middle East Eye.
Un rapporto di giugno dell’International Crisis Group (ICG) ha inoltre evidenziato come il porto di Port Sudan sia diventato un punto di ingresso per il flusso di forniture militari attraverso intermediari iraniani operanti sotto copertura commerciale.
I civili pagano il prezzo
Questi sviluppi avvengono mentre organizzazioni umanitarie, come il Coordinamento degli sfollati in Darfur, segnalano che campi come Kalma, Atash e Dereig hanno registrato solo tra giugno e luglio centinaia di feriti e morti tra gli sfollati, a causa di malnutrizione, mancanza d’acqua e degrado delle strutture sanitarie.
Secondo dati diffusi dal Coordinamento il 2 agosto, solo nel campo di Dabba Nayra sono stati registrati oltre 2.700 casi di contagio e 52 decessi, oltre a numeri significativi nei campi di Golo e Nyala.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha confermato nel suo ultimo rapporto che l’epidemia di colera “si è diffusa in 17 delle 18 province sudanesi, aggravata dalla mancanza di accesso umanitario, dall’aumento del rischio di carestia e dalla diffusione di malattie croniche.”
L’esercito tra responsabilità e isolamento
In questo contesto, crescono le richieste di processare la leadership militare sudanese davanti alle corti internazionali.
Il politologo Omar Mohamed Nour ha commentato: “Al-Burhan sta ripetendo i crimini del regime di al-Bashir, e finirà allo stesso modo se non verrà perseguito a livello internazionale”, aggiungendo che “il problema è più profondo della figura di al-Burhan, e risiede nella struttura stessa dell’esercito, che necessita di una ricostruzione su basi nazionali e non ideologiche.”