Era il 23 maggio 1992. Falcone stava tornando a casa. L’aereo da Roma, la guida veloce, l’autostrada A29. Poi Capaci. Poi la strage. Una voragine in mezzo all’asfalto e la Sicilia – l’Italia – che non sarebbe stata più la stessa. Lo chiamano ancora oggi “l’attentatuni”. Il più grande attentato di mafia mai visto.
Una vendetta. Un messaggio. Un’esecuzione annunciata.
Capaci, la strage che ha scosso le fondamenta dello Stato
Falcone non era solo un magistrato. Era il simbolo di qualcosa che faceva paura. Evidentemente aveva scoperto qualcosa di troppo o dava troppo fastidio. Aveva esagerato forse per alcuni. Non si era fermato mai. Con il maxiprocesso aveva costretto Cosa Nostra a mettersi a nudo. Aveva ascoltato Buscetta, collegato fili, smontato legami. Aveva toccato i soldi, le banche, i colletti bianchi? Forse.
E questo, i boss non glielo perdonavano. La strage di Capaci non fu solo vendetta. Fu una presa di posizione della mafia sullo Stato. Riina voleva far saltare tutto: Falcone, lo Stato, la speranza. E ci riuscì evidentemente almeno per un po’.
L’eredità della strage di Capaci: memoria, paura, ma anche lotta
Dopo Capaci, niente fu più scontato. Ogni magistrato sapeva che poteva finire così. Ogni cittadino iniziò a farsi delle domande. Qualcosa si ruppe. Ma qualcosa si accese.
La mafia voleva il silenzio, ma quella bomba fece rumore. Troppo. Lo Stato rispose. Tardi, forse. Ma rispose. Con nuove leggi. Con la Direzione nazionale antimafia. Con più scorte, più indagini, più consapevolezza.
Eppure, ancora oggi, qualcosa non torna. Falcone fu isolato prima di essere celebrato. Fu lasciato solo mentre costruiva il futuro. E oggi lo ricordiamo. Ogni 23 maggio. Ma ricordare non basta. La strage di Capaci ci ha insegnato che la mafia non scompare: cambia pelle. E torna, quando abbassiamo la guardia.