Roma, 28 lug. (Adnkronos Salute) – "L'epatite B e l'epatite C sono ancora una realtà ben presente nel nostro Paese. Si tratta di due malattie diverse: per l'epatite B esiste una vaccinazione efficace, che rappresenta uno dei più grandi successi della sanità pubblica italiana. Per l'epatite C, invece, non abbiamo un vaccino, ma la disponibilità di farmaci antivirali ha consentito l'eradicazione del virus in oltre 500mila persone.
Tuttavia, la battaglia non è ancora vinta. Si stima che nel nostro Paese ci siano ancora almeno 300mila persone positive al virus dell'epatite C, spesso inconsapevoli". Lo ha detto Antonio Gasbarrini, professore di Medicina interna dell'Università Cattolica e direttore scientifico della Fondazione Policlinico universitario Gemelli Irccs di Roma, all'Adnkronos Salute in occasione della Giornata mondiale delle epatiti del 28 luglio.
"Fino all'inizio degli anni '90 – spiega lo specialista – l'epatite C era sconosciuta, poiché mancavano i test per diagnosticarla. Quando sono diventati disponibili, si è scoperto che in Italia c'era una prevalenza altissima, dal 2,5% al 4%, legata a pratiche sanitarie non sicure negli anni '70-'80. Oggi abbiamo ridotto enormemente questi numeri, ma esiste ancora un 'esercito invisibile' di malati: persone con transaminasi alterate o senza sintomi, che non vengono diagnosticate perché non c'è abbastanza attenzione al problema".
"L'Italia ha messo in campo una campagna di screening mirata alla popolazione nata tra il 1969 e il 1989, poiché in quella fascia di età l'intervento è risultato costo-efficace. Tuttavia – osserva l'esperto – questa strategia ha dei limiti: l'infezione è presente anche in persone nate prima del 1968, e si sta diffondendo anche tra i giovani, complici l'uso di droghe, pratiche a rischio e la falsa percezione che le malattie sessualmente trasmesse non esistano più". Per questo "dobbiamo intensificare lo screening proattivo, andando a cercare i pazienti sommersi", avverte Gasbarrini. "Le Regioni italiane si sono mosse in maniera disomogenea – riflette – ma è fondamentale cercare i soggetti a rischio: detenuti, tossicodipendenti, persone che hanno subito trasfusioni prima degli anni '90, o che hanno subito interventi o tatuaggi in contesti non controllati. Inoltre – aggiunge – dobbiamo essere attenti nei casi di transaminasi elevate, che non sempre sono dovute a steatosi o abuso di alcol: spesso dietro c'è un'epatite C misconosciuta".
L'epatite C si cura molto bene. "Gli antivirali ad azione diretta hanno un'efficacia superiore al 95%, con poche settimane di terapia orale, ben tollerata e con minimi effetti collaterali – sintetizza Gasbarrini – Nessun antibiotico ha una potenza paragonabile a questi farmaci. Tuttavia, dobbiamo ricordare che l'eradicazione non conferisce immunità: chi guarisce può reinfettarsi se mantiene comportamenti a rischio. Ecco perché la prevenzione resta fondamentale".
Il rischio più grande oggi è abbassare la guardia. "Se non intensifichiamo lo screening e l'identificazione precoce – rimarca lo specialista – rischiamo di vedere una riemersione dell'epatite C in Italia. L'epatite C resta una delle prime cause di epatite fibrosi e cirrosi e delle complicanze della cirrosi: dallo scompenso ascitico all'emorragia digestiva, all'encefalopatia porto-sistemica, all'insufficienza epatica e, soprattutto, al tumore del fegato. L'epatocarcinoma – aggiunge – è ancora oggi un big killer nel nostro Paese e spesso rappresenta la conseguenza di un'epatite C non trattata. Ridurre i casi di epatite C significa anche ridurre i trapianti di fegato, liberando organi per altre patologie". Non abbiamo ancora "un vaccino per l'epatite C e non possiamo aspettare – incalza Gasbarrini – Dobbiamo agire con gli strumenti che abbiamo: test, screening, trattamenti. E dobbiamo educare i cittadini e i professionisti sanitari a riconoscere i segnali dell'infezione. Anche in un'epoca in cui crescono obesità, infiammazione cronica e patologie metaboliche come la Mafld", una malattia epatica steatosica associata a disfunzione metabolica, precedentemente nota come Nafld, "non dobbiamo dimenticare che dietro a un aumento delle transaminasi può celarsi l'epatite C".
Questa malattia "esiste ancora. Ma oggi possiamo curarla e possiamo prevenirla, se non abbassiamo l'attenzione – prosegue l'esperto – Viviamo in un Paese che ha investito nella salute pubblica, ha messo a disposizione dei cittadini terapie di altissima qualità, e si è dimostrato che le campagne di screening per l'epatite C sono costo-efficaci cioè vale la pena investire per diagnosticare la malattia perché l'eradicazione porta a una netta riduzione delle complicanze e dei costi". Si tratta però di identificare le persone che non sanno di essere infette, ma che hanno comportamenti a rischio, e lavorare sulla prevenzione, eliminando i fattori di trasmissione perché, "se non vengono identificate e curate, svilupperanno nella grande maggioranza dei casi, epatite fibrosi cirrosi e le complicanze", mentre abbiamo terapie in grado di eradicare il virus.