Nessuno ha incarnato la potenza oscura dell’America post-11 settembre come lui: vicepresidente silenzioso, teorico del potere senza esitazioni, regista della “guerra al terrore” che ha riscritto le regole della politica, della morale e del diritto.
Per anni non servì nemmeno nominarlo: “Cheney” era un codice, un sottotesto.
La Casa Bianca di Bush figlio parlava la sua lingua – quella del sospetto, della sicurezza prima di tutto, del nemico da colpire preventivamente. Se George W. era il volto sorridente e incerto del potere, Cheney ne era l’ombra: lucido, determinato, impermeabile al dubbio.
Ex ministro della Difesa, ex amministratore delegato di Halliburton, conosceva le due anime dell’America – quella delle guerre e quella del business – e seppe fonderle in una visione coerente, persino spietata: la libertà va difesa anche a costo di sospenderla. Da quella filosofia nacquero Guantanamo, le prigioni segrete della CIA, le torture “autorizzate”, la sorveglianza senza mandato.
Mai un passo indietro, mai una parola di pentimento. Cheney non fu solo un politico, ma il teorico di un’America in stato d’eccezione permanente.
Quando il Senato, anni dopo, pubblicò il rapporto sugli interrogatori della CIA, lo definì “una vergogna nazionale”. Lui rispose: «Lo rifarei. Senza esitazioni».
Era un uomo convinto che la Storia non si scrive con le buone intenzioni ma con la forza. Ed è anche per questo che, nel tempo, il suo nome è rimasto legato alle zone grigie del potere: i contratti miliardari di Halliburton in Iraq, la task force energetica segreta che incontrava i giganti del petrolio, il tentativo di ridefinire l’autorità presidenziale come scudo assoluto.
A distanza di vent’anni, la sua eredità è visibile come una crepa lunga: il mondo che nacque dal suo pensiero è quello dove la paura è diventata metodo politico, dove la sicurezza giustifica tutto, dove la verità è sacrificabile se serve alla causa.
Eppure – in un’ultima torsione paradossale – negli ultimi anni Cheney era diventato un critico feroce del trumpismo, del caos populista che aveva divorato il suo stesso partito. L’uomo che aveva costruito l’architettura della “guerra infinita” si era ritrovato a difendere la vecchia destra razionale dai nuovi fanatici.
Forse la sua grande contraddizione è tutta qui: aver consacrato la forza come principio assoluto, e aver visto quella stessa forza sfuggire di mano, trasformarsi in rabbia e disordine.
Dick Cheney muore come è vissuto: senza indulgenza, senza scuse, dentro la linea d’ombra del potere.
È stato il vicepresidente più influente e più temuto della storia americana.
E l’uomo che ha fatto della paura – non della speranza – la lingua franca del XXI secolo.