A Monza la Procura ha portato alla luce una rete di attiviste femministe accusate di stalking, diffamazione e istigazione all’odio. Un vero e proprio “commando digitale” che, secondo gli inquirenti, organizzava campagne di denigrazione pubblica — i cosiddetti call out — contro uomini (ma anche donne) ritenuti molestatori, manipolatori o complici di culture misogine.
Nessuna denuncia, nessun processo, nessuna prova: solo accuse diffuse in rete per annientare la reputazione dei presunti colpevoli.
Questa vicenda non riguarda soltanto un gruppo di militanti radicali, ma il cortocircuito culturale in cui viviamo: la trasformazione della giustizia in vendetta, della libertà in violenza simbolica. La giustizia fai-da-te è sempre una forma di barbarie, anche quando si traveste da battaglia per i diritti. L’inchiesta di Monza sulle cosiddette “femministe d’assalto” non racconta solo un episodio di violenza verbale o di gogna digitale, ma fotografa un cambiamento antropologico: l’idea che la reputazione di una persona possa essere distrutta in rete, senza prove né contraddittorio, in nome di una causa ritenuta giusta. Voltaire lo chiamava “il diritto delle tigri”: quella furia collettiva che scambia la libertà per istinto predatorio e la giustizia per vendetta. È il trionfo del branco morale, dell’indignazione come sport nazionale.
Il call out — la chiamata alle armi della maldicenza — nasce come strumento di denuncia, ma degenera presto in un tribunale parallelo, dove basta un sospetto, un pettegolezzo o anche solo una simpatia politica “sbagliata” per essere condannati. Non è più giustizia: è giustizialismo travestito da progresso. La libertà di parola — anche quella di critica, anche quella femminista o militante — è un valore, non una clava da usare contro un avversario, un presunto abuser o semplicemente contro chi ci sta antipatico. Perché nel momento in cui la libertà si trasforma in arma, perde la sua natura di diritto e diventa strumento di dominio. C’è poi un punto che quasi nessuno osa toccare: la responsabilità delle piattaforme. I social network sono oggi il luogo dove si consumano diffamazioni, istigazioni e gogne pubbliche. Ma mentre un giornale risponde penalmente di ciò che pubblica, le piattaforme si dichiarano neutrali. È una comoda ipocrisia. Se un quotidiano risponde in tribunale per le proprie pagine, perché non dovrebbero farlo anche le bacheche digitali?Viviamo in tempi di jihadisti della parola, fanatici del verbo che scambiano la distruzione simbolica per militanza e l’offesa per diritto d’espressione. Ogni causa, anche la più nobile, quando perde il senso del limite, finisce per tradire se stessa.
Perché nessuna rivoluzione morale vale quanto la rinuncia alla civiltà.
E nessuna libertà, se usata come un’arma, resterà mai tale.
E nessuna libertà, se usata come un’arma, resterà mai tale.