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LA RIFORMA SEMIPRESIDENZIALE FRANCESE DA SESSANT’ANNI 

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IL «RESISTIBILE FASCINO DI UNA SOLUZIONE AMBIGUA», E LA RIFORMA DEL MINISTRO MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI     

Da più di sessant’anni, periodicamente, la dottrina italiana si interroga e si accanisce intorno alle virtù (e ai supposti vizi) della forma di governo della Quinta Repubblica francese. Da sessant’anni quel modello costituisce un parametro irrinunciabile e non aggirabile dei nostri studi sulla “migliore” riforma delle istituzioni. Da sessant’anni il «resistibile fascino di una soluzione ambigua», secondo una felice espressione di Carlo Fusaro (emerito di Diritto Costituzionale Università di Firenze.

Nato da madre svizzera tedesca e da padre italiano, magistrato, Fusaro è stato docente dell’Università di Pisa e Firenze. Carlo Fusaro inizia la sua carriera scrivendo il libro Guida alla Costituzionenel 1976; fu opinionista politico nei primi anni di vita di Tele Libera Firenze di Mauro Ballini. Diviene ricercatore universitario nel 1981; è eletto deputato del Parlamento Italiano per il Partito Repubblicano nel 1983 (circoscrizione Firenze-Pistoia); resta in carica fino al 20 settembre 1984 quando è dichiarato decaduto a seguito di un riconteggio dei voti (viene proclamato al suo posto, Roberto Barontini); nel 1990 viene eletto consigliere della Provincia di Firenze per il Partito Repubblicano; si dimette nel 1993. Pubblica il libro Principio maggioritario e forma di Governo scritto a Firenze. Nel 1996 diventa professore di Diritto Pubblico nell’Università di Pisa, mentre nel 1999 diviene professore ordinario di Diritto pubblico comparato, ed è chiamato dall’Università di Firenze, dove insegna fino al 2018) attira produce convegni, libri, rassegne, numeri monografici di riviste.

Eppure, se si eccettua una breve ancorché intensissima fiammata tra il 1996 e il 1998, l’opzione semipresidenziale di ispirazione francese non è mai sembrata rappresentare una alternativa realistica nell’infinito (e non concluso) dibattito italiano sulle riforme istituzionali. Il sistema politico italiano (almeno nelle aule parlamentari) non sembra avere realmente e convintamente perseguito quella soluzione come credibile via di uscita dalla transizione permanente nella quale siamo immersi almeno dalla XII legislatura. Anzi, vista a più di 30 anni di distanza, anche quella breve fiammata sembra assumere i caratteri del contingente e transeunte espediente di tattica politica, cinicamente utilizzato da alcuni partiti in un momento di difficoltà, da altri agitato con identico opportunismo allo scopo di regolare qualche conto, e subito abbandonato non appena il quadro politico è mutato. E non, invece, il convinto e sincero tentativo – incolpevolmente andato a vuoto – di trovare una formula in grado di far fronte alle note disfunzioni del nostro sistema politico- istituzionale e di offrire all’Italia una stagione di stabilità ed efficacia decisionale. Nessun altro modello ha subito una parabola così curiosa, in una fase storica nella quale la classe politica e il corpo dei costituzionalisti hanno sovente marciato a braccetto in una infinita e talvolta addirittura stucchevole rincorsa al mito del buon governo: esaltato (talvolta oltre misura) per le sue virtù, o esecrato (talvolta esageratamente) per i suoi vizi, ma comunque studiato e analizzato nei suoi più reconditi meccanismi di funzionamento, in ambito scientifico. Ignorato, o tutt’al più agitato strumentalmente come merce di scambio in vista di diversi equilibri, in ambito politico. È all’indagine delle ragioni di tale evidente divaricazione che sono dedicate prossime pagine. Un’avvertenza preliminare è d’obbligo. Come noto, la categoria del semipresidenzialismo è oggetto da sempre di accanite discussioni. Ancora oggi (per la verità più in Francia che in Italia) molti continuano a dubitare che possa parlarsi di una vera e propria autonoma categoria delle forme di governo. L’organizzazione delle istituzioni politiche della Quinta Repubblica ne costituisce sicuramente, nella sua assoluta peculiarità, un prototipo, ma non ne esaurisce di certo le applicazioni. La dottrina ha in ogni caso da tempo rigettato la tesi che vorrebbe fare del modello semipresidenziale un modello unico, sostanzialmente coincidente «con il figurino costituzionale della Quinta Repubblica francese». Il Professor Gianfranco Miglio, scomparso nell’agosto 2001, è stato per anni il «pungolatore» per una vera riforma costituzionale verso la Repubblica Presidenziale in stile francese, sarebbe forse il caso di riprendere i suoi studi. Era nato a Como l’11 gennaio del 1918 e per molti anni era stato preside della facoltà di Scienze politiche dell’università Cattolica di Milano, dov’era arrivato nel ’36. Dopo gli studi liceali, nel 1936 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università cattolica di Milano, dove ebbe come maestri il giurista G. Balladore Pallieri (con il quale si laureò nel 1940 con un lavoro avente come tema «Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell’Età moderna») e il filosofo della politica A. Passerin d’Entrèves (che lo avviò allo studio di Th. Hobbes e gli fece conoscere l’opera di C. Schmitt). Nel periodo tra la fine del regime mussoliniano e la nascita della Repubblica frequentò gli ambienti dell’antifascismo cattolico lombardo e aderì al gruppo di federalisti che si raccoglieva intorno al periodico Il Cisalpino diretto da T. Zerbi. Nel 1943 si iscrisse alla Democrazia Cristiana, nelle cui file militò sino al 1959, quando se ne distaccò polemicamente non condividendone quella che giudicava una deriva clientelare e affaristica. Nel frattempo, aveva iniziato una brillante carriera accademica all’interno dell’Università cattolica. Federalista fin dagli anni Cinquanta, aveva studiato a fondo i testi di Carlo Cattaneo. In seguito, aveva raccolto attorno a sé un cenacolo di professori universitari, il Gruppo di Milano. Poi, all’inizio degli anni Novanta, aveva incontrato Umberto Bossi, che sembrava il miglior interprete della sua linea ideologica.  Si erano conosciuti nella villa del professore a Domaso. Un progetto nel segno del «decisionismo», concetto che Miglio aveva mutuato dal pensiero di Schmitt, che egli aveva fatto conoscere in Italia nel 1972 curandone una raccolta di saggi, <<Le categorie del politico>> (Bologna), che ebbe una grande influenza sul dibattito politico-giuridico di quegli anni e che segnò in modo irreversibile la fortuna del giurista tedesco nella cultura italiana. L’idea del Professore era che, stante l’avversione delle forze politiche a un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale vigente, che avrebbe finito per ridurre il loro controllo sulla macchina pubblica, si sarebbe dovuto procedere forzando i meccanismi di revisione previsti dall’art. 138 della Costituzione, attuando uno «sbrego», come egli lo definiva, che sarebbe poi stato sanato attraverso lo strumento del referendum popolare. Le sue proposte per quanto oggetto di un ampio dibattito non ebbero tuttavia alcun seguito politico, rafforzando così in Miglio il convincimento che nell’Italia dominata dalla «partitocrazia» un cambiamento delle regole del gioco si sarebbe potuto ottenere solo dall’esterno del sistema, attraverso una crisi politica o economica di vasta portata. Ma proprio per questo oggi dobbiamo difendere il centrodestra dall’accusa più ridicola, che viene rivolta a reti unificate dal resto dell’opposizione e da alcuni, editorialisti di sinistra. L’accusa è semplice: deriva autoritaria, svolta antidemocratica. Perché? Perché con la riforma costituzionale, la destra riduce i poteri del Presidente della Repubblica. È vero che vengono ridotti i poteri del Colle ma questo non vuol dire che ci sia una svolta autoritaria. Si possono ridurre o aumentare i poteri del Quirinale senza per forza dover evocare ogni più sospinto il fascismo. Del resto, l’unico modo per mantenere intatti i poteri del Presidente è non fare niente. Mentre il modo per aumentare i poteri sostanziali del Presidente del Consiglio a questo punto è eleggerlo direttamente. L’elezione diretta del Premier, toglie giocoforza poteri al Presidente della Repubblica. Con una riforma del genere non saranno mai più possibili i governi tecnici e i ribaltoni e il Capo dello Stato non potranno più trovare soluzioni “creative” alle crisi di Governo. Con la riforma del Ministro Maria Elisabetta Alberti Casellati, certe manovre di palazzo non saranno più possibili. Ma sostenere che questo sia l’annullamento del ruolo del Presidente della Repubblica figlio della destra autoritaria è falso. E nessuno ha il coraggio di dire che anche la proposta della sinistra – il cancellierato con la sfiducia costruttiva – toglie poteri al Presidente. Esattamente allo stesso modo. I poteri tolti al Colle vanno nel primo caso ai cittadini che eleggono il premier direttamente, nel secondo caso ai parlamentari che possono aprire una crisi solo se hanno già individuato un’alternativa. Non fate di Mattarella il capo dell’opposizione, per favore. Non fatene il federatore dei vostri sogni. Non lo merita (e non lo accetterà mai, ovviamente) il nostro Presidente, non lo meritano le nostre istituzioni. Chi ha lavorate per avere Mattarella al Quirinale nel 2015 e chi ha lavorato per non avere candidati alternativi nel 2022 conosce bene il valore del Capo dello Stato. Per questo nessuno si può permettere di fare l’opposizione a Meloni strumentalizzando il ruolo del Presidente. Che è l’Arbitro, non un giocatore.