Putin ha già vinto una battaglia: rivelare le debolezze e le contraddizioni dell'Occidente

I signori della guerra festeggiano della tensione internazionale. La situazione è complessa, ma ci vuole un bel coraggio a non vedere la distribuzione delle responsabilità.

Una battaglia Putin l’ha già vinta: il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk è bastato per innescare il cortocircuito di contraddizioni nel cuore dell’Europa e nei rapporti dei membri Nato.

Il fragile accordo di Minsk, mai rispettato del tutto, diventa carta straccia per non perdere l’occasione di destabilizzare il blocco occidentale.

Portare il conflitto ai massimi livelli, del resto, è la sola politica di cui è capace il leader russo, e i territori del Donbass sono ora ufficialmente presidiati dalle truppe russe nonostante non siano mai stati lasciati sguarniti (di militari e di soldi) nemmeno dopo l’intesa del 2014. Poiché la guerra da sempre sanguina parole ipocrite dal significato invertito, Putin ha anche l’occasione di chiamare “contingente di pace” i suoi uomini in divisa che per ora servono più per le foto e i video da fare circolare nel mondo che per le armi.

Per ora basta fare annusare al mondo l’odore del possibile conflitto. Una guerra vera in questo momento non converrebbe a nessuno. Non conviene alla Russia che non ha la forza di sostenerne il costo troppo a lungo, ancora di più alla luce delle pesanti sanzioni che ne conseguirebbero. Non conviene all’Europa che teme le sanzioni, nonostante finga di sventolarle: gli scambi commerciali con la Russia sono troppo importanti per Germania, Francia, Spagna e Italia.

Per questo a propendere per la linea dura sono soprattutto gli USA, la Gran Bretagna e i Paesi del Nord. Solo per fare un esempio oggi Automotive News scrive di come Volkswagen, Renault e Stellantis risentirebbero pesantemente delle sanzioni: Renault è la più esposta per le sue quote in AvtoVAZ, leader del mercato russo; Volkswagen e Stellantis hanno impianti a Kaluga, in Russia, come anche Mercedes, BMW e Ford. E questo riguarda tutti i settori.

Per questo il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, può seraficamente affermare di non essere spaventato da nessuna sanzione: «I nostri colleghi europei, americani, britannici non si fermeranno e non si calmeranno finché non avranno esaurito tutte le loro possibilità per la cosiddetta punizione della Russia. Ci stanno già minacciando con ogni sorta di sanzioni o, come si dice ora, la madre di tutte le sanzioni. Bene, ci siamo abituati.

Sappiamo che le sanzioni verranno comunque imposte, in ogni caso. Con o senza motivo». La narrazione del complotto mondiale contro la propria potenza è una favola che da quelle parti torna sempre utile per infiammare un patriottismo utile a Putin.

Intanto si può definitivamente considerare compromesso qualsiasi avvicinamento dell’Ucraina alla NATO. Senza nemmeno bisogno di sparare un colpo Kiev si ritrova irrimediabilmente destabilizzata. E c’è da scommettere che Putin ci penserà bene prima di passare a una vera e propria “invasione”: la sua posizione in bilico mette in crisi gli USA che provano a capire come definire la mossa russa.

Non è una vera e propria invasione, non si può fare altro che limitare, per ora, le sanzioni alla regione del Donbass. «Se fossi stato consigliere di Putin – ha commentato l!analista Ian Bremmer al Washington Post – gli avrei detto di fare questo perché ora abbiamo un problema”. Uno degli obiettivi è non rendere troppo facile la risposta del’Occidente.

In un momento così terribilmente complesso ora dovremo sorbirci la petulanza dei tifosi superficiali.

Tra le dichiarazioni dei politici fioccano già le accuse ai pacifisti che scendono in piazza per le guerre USA e che ora tacciono per non irritare Putin, c’è chi invoca l’accellerazione sul nucleare per mettere all’angolo Putin, c’è perfino chi ha il coraggio di prendersela con i pacifisti senza provare nemmeno un po’ di vergogna. Fare una guerra è già un’azione bestiale, usarla per la propria propaganda da cortile è ripugnante e immorale.

Anche perché forse sarebbe il caso di ricordare che qualche giorno fa alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza il segretario della Nato Jens Stoltenberg aveva tuonato felice che «l’allargamento della Nato negli ultimi decenni è stato un grande successo e ha anche aperto la strada a un ulteriore allargamento della Ue». Solo che l’allargamento della Nato parte da quel 1999 in cui la Nato demolì la Jugoslavia, passa dall’inglobamento dei primi tre Paesi dell’ex Patto di Varsavia (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), poi Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss), poi Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia), Slovenia (già parte della Federazione Jugoslava), fino all’Albania nel 2009 (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Federazione Jugoslava) e nel 2017 il Montenegro (già parte della Jugoslavia) e nel 2020 la Macedonia del Nord (già parte della Jugoslavia).

In vent’anni si è passati da 16 a 30 Paesi arrivando fino all’interno del territorio dell’ex URSS, con la NATO che altro non è che il vestito buono (e molto lungo) delle leve militari USA. Ce ne sono parecchie di mire espansionistiche, per intendersi. Stoltenberg, portavoce Usa prima che della Nato, ha annunciato trionfante che «questo è il settimo anno consecutivo di aumento della spesa della Difesa degli Alleati europei, accresciuta di 270 miliardi di dollari dal 2014».

Tutti soldi sottratti alle spese sociali e agli investimenti produttivi. I signori della guerra festeggiano della tensione internazionale. Il premier Draghi ha già annunciato che «ci dobbiamo dotare di una difesa più significativa: è chiarissimo che bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora» e il suo silenzioso ministro alla Guerra Lorenzo Guerini sta facendo schizzare le spese.

La situazione insomma è complessa. Ma ci vuole un bel coraggio a non vedere la distribuzione delle responsabilità.