Medaglia d’oro dei pesi welter alle Olimpiadi di Roma 1960, campione mondiale dei superwelter tra il 1965 e il 1966 e dei medi dal 1967 al 1970. La lotta, diceva, «c’è nel momento in cui tutto quello che hai raggiunto non ti è più sufficiente, così ti proponi qualcosa di diverso, di più difficile, con un ambiente o con una storia».
Amava dire che la vita è una corsa e una lotta. L’aveva imparato sulla propria pelle. Sul ring, certo, lo spazio dove si era costruito la sua leggenda e aveva trovato il modo di scalare l’olimpo. Ma anche fuori da quel rettangolo di fatica e sudore.
Aveva l’età dei brufoli, dodici anni e qualcosa quando, all’Isola d’Istria, il paese suo di nascita, si divertiva a tirare cazzotti a un sacco di iuta, gonfio di frumento che lui aveva appeso ad una trave della cantina, per proteggersi si era inventato un paio di calzettoni di lana grossa a fasciare le mani, la fantasia di racconti d’oltre oceano gli suggerì di allestire un ring fatto con una corda ad avvolgere le colonne di cemento, più che un quadrato era un triangolo, il teatro dei suoi sogni. Il nonno, Francesco il nome, gli aveva trasferito la passione che poi Fernando, il padre di Nino, aveva praticato in palestra, alternando la boxe al mestiere di pescivendolo. Benvenuti raccontò come ebbe termine quella pratica paterna, fu per colpa di un pugno che Fernando sferrò in pieno sul naso di Massimo Bin che era un pugile alto e grosso, categoria pesi massimi, i due stavano giocando usando i guantoni ma poi il Bin finì al tappeto, cioè sul pavimento di casa, il sangue uscì copioso e a forza di strofinare le narici, si ritrovò con un livido all’occhio, nel panico generale di parenti e affini presenti alla contesa involontaria. E così Fernando si dedicò esclusivamente al pesce e Nino capì che la boxe era, e sarebbe stata ancor di più, una cosa seria.
C’è sempre una fetta di favola nei ricordi di un tempo lontano che si presta al romanzo, a Isola d’Istria si parlava di football e di canottaggio, la società Giacinto Pullino aveva vinto le Olimpiadi del ’28 ad Amsterdam con il quattro con (Perentin-Deste-Vittori-Delise più Petronio timoniere) i soci decisero di aprire anche al pugilato e fu un reduce della guerra, Luciano Zorzenon uno dei palombari che era stato impiegato nel recupero del Rex, a riunire un gruppo di ragazzi ed avviare una scuola di pugilato. Nino ci sapeva fare, era veloce di cervello e agile nei colpi, anticipava l’azione dell’avversario, buona difesa e attacco fulmineo, sul tempo, a tredici anni sconfisse un sedicenne, ne ricordava il cognome, Tonella. A scuola non male, il ginnasio non completato per colpa degli slavi ma nessuna rinuncia vera se non quella di giorni passati guardandosi alle spalle, ascoltando il brusio cattivo di chi odiava gli italiani. Nino andava in palestra, come aveva fatto Fernando, era questa la sua scelta.
Benvenuti aveva visto la morte e il male attorno a sé, ma è stato l’amore a segnarlo per sempre. Immaginifico, romantico, omerico, ormai vecchio Nino raccontava della sua vita con la semplicità e la potenza di un aedo. E nelle sue storie c’erano sempre il mare, il vento, la forza e il coraggio, e ovviamente il padre Fernando che tornava a casa dal mercato del pesce e baciava Dora, la mamma. «Io ho avuto una grande fortuna – ha detto – ho avuto dei genitori giusti. Ecco, l’amore io l’ho conosciuto dai miei genitori». Fu il padre ad avviarlo al pugilato. Aveva ricavato una palestra nello scantinato montando le corde legate a tre colonne: era un quadrato triangolare. Usava bende elastiche per fasciare le mani. E i guantoni, invece, quelli arriveranno più tardi. «Facevo trenta chilometri in bici per allenarmi all’Accademia pugilistica triestina».
A ventidue anni trovò l’immortalità. Era il 5 settembre 1960, i Giochi di Roma avrebbero segnato per sempre la sua vita di pugile. Ma nella sua vita c’è sempre stato tanto altro, Benvenuti sapeva guardare il mondo. Un’ora prima della finale contro il russo Radonyak era seduto su una poltrona di vimini nel villaggio olimpico che leggeva Il gattopardo . E sul comodino della sua stanza c’era anche una bella edizione del Dottor Zivago . Dopo quella vittoria si inserì nel circuito dei professionisti, facendosi allenare da Libero Golinelli e diventando in pochi anni uno dei pugili più vincenti e rispettati al mondo.
La Trilogia con Griffith
Al Madison Square Garden di New York tra il 1967 e il 1968 affrontò tre volte Emile Griffith. È passata alla storia come la Trilogia. Vinse Benvenuti due volte su tre, e diventò un’icona. «Poi diventi un vecchio e ti senti dire: ecco Nino Benvenuti, l’ex campione del mondo. Allora io dico no, io sono un campione olimpico. Un olimpionico. Da olimpionico ho vissuto la mia vita».
Ma Benvenuti è stato molto altro. Il dualismo con Sandro Mazzinghi, le amicizie con i divi del cinema, le sconfitte contro Carlos Monzon. «Prima o poi capita a tutti di perdere. Sono contento di aver lasciato il titolo a un grande come Carlos. E poi quelle sconfitte mi hanno fatto capire che c’è un limite oltre il quale un uomo non può e non deve andare». Nel 1971 pensò che il momento di smettere era arrivato. «L’ho fatto serenamente perché capivo che avevo esaurito il percorso e avevo raggiunto, a quel punto, tutto quello che mi ero prefissato».
La memoria resta negli oggetti, nelle piccole cose. «Come alberi, ci hanno strappato le radici. A noi italiani d’Istria è stata negata la memoria, la dignità, persino l’esistenza». Una sera, non per caso, parte una canzone di Sergio Endrigo L’arca di Noè. «Strisce bianche nel cielo azzurro per incantare e far sognare i bambini. La luna è piena di bandiere senza vento, che fatica essere uomini». Per anni è stata spacciata per vagamente ambientalista, in realtà racconta l’esodo silenzioso degli istriani italiani verso una madrepatria che non li riconosce. Nino scoppia a piangere, lacrime e singhiozzi, e si copre la faccia con i pugni. Quando alza il viso sussurra: questo è un colpo basso. Non c’è un’immagine di quella notte. Le leggende e i sogni si raccontano a voce. Il cane esce, fa i suoi bisogni e torna verso di lui. Nino finalmente è tornato a casa.