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Il dipendente affettivo: amante e non amato, o amante e vampiro?

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"Sei la mia droga"... è ciò che rispecchia maggiormente come frase un rapporto passionale. Ma quanto le crisi d'astinenza rischiano di devastare? Quando quella sostanza che si credeva di padroneggiare ad un tratto, senza preavviso, comincia a padroneggiarci? Quanto la dose d'amore comincia a non b...

magritte les amants933“Sei la mia droga”… è ciò che rispecchia maggiormente come frase un rapporto passionale. Ma quanto le crisi d’astinenza rischiano di devastare? Quando quella sostanza che si credeva di padroneggiare ad un tratto, senza preavviso, comincia a padroneggiarci? Quanto la dose d’amore comincia a non bastare più, rendendo costantemente assuefatti e insoddisfatti tanto da divorare l’amante-droga sempre di più, ferendolo e ferendosi?
Sulla dipendenza affettiva, specialmente nelle relazioni amorose, si è scritto tanto, soprattutto da quando l’argomento è stato pubblicato nel libro “Donne che amano troppo” di R. Norwood, psicologa americana che ha individuato questo “amoroso mostro” in una sorta di gioco di ruoli in cui il confine tra la ricerca della familiarità con vissuti personali dell’infanzia (non sempre felici) ed il mettersi in situazioni relazionali che replicano quelle stesse angosce diventa tanto labile quanto feroce.
Il dipendente chi è? Un “buono” che si prostra per l’altro e che si fa del male… o piuttosto una persona che “vende” il proprio amore nella speranza di ricevere qualcosa di estremo e indefinito, allontanandosi dall’oggetto del desiderio nel momento in cui viene assecondato in ogni suo capriccio, divorando l’identità di una persona che non vuole cambiare, né essere salvata o curata o portata su una presunta retta via?
Girando su Internet, ho pensato di riportarvi due articoli che parlano di dipendenza affettiva in modo diverso, due facce della stessa medaglia in cui però la raccomandazione è una: guardare in se stessi per non farsi più del male con un sentimento che dovrebbe essere la salvezza di ogni vita… parlo dell’amore che si prova, non di quello che si riceve!

La dipendenza affettiva – di Paola Liscia

Negli ultimi anni, assieme alle diverse forme di dipendenza che possono attraversare l’animo umano (droga, alcol, sesso, gioco d’azzardo, etc..), si sente parlare di “dipendenza affettiva”.
Ci si può pertanto chiedere, dato che nelle situazioni sentimentali, capita spesso di soffrire, se sia questa la situazione che ci riguarda e come potervi far fronte.

Innanzitutto occorre specificare che la dipendenza è un fenomeno tipico della specie umana e non è di per sé patologico, tanto che la prima e fondamentale esperienza di dipendenza è quella del neonato dalle figure adulte di riferimento.
Per tutta la vita si sperimentano situazioni di dipendenza: sia in amore che nelle diverse forme di legame, essa è indissolubile dal sentimento stesso che proviamo per l’altra persona, per questo possiamo definirlo attaccamento. J. Bowlby è stato il primo a parlare dell’importanza dell’attaccamento. Secondo lo studioso, le interazioni tra madre e bambino (che iniziano già durante la gravidanza, e che vanno dall’abbraccio, allo scambio di sguardi, alla nutrizione, al conforto ecc.), strutturano ciò che viene definito “sistema d’attaccamento”.
Questo periodo dello sviluppo è molto importante perché porta allo crescita del sistema che guiderà le interazioni e gli scambi relazionali e affettivi.
Poichè l’autonomia emotiva e la piena coscienza di sé non si sono ancora formate, se si verificano esperienze di rifiuto e di abbandono da parte di uno o di entrambi i genitori, i bambini sperimentano inconsapevolmente sia l’ambivalenza tra il dolore e la rabbia per l’ amore non ricevuto, sia il dubbio di non valere poi tanto e di dover fare di tutto per essere migliori.
Queste premesse, creano le basi per la possibilità di sviluppare una dipendenza affettiva, i cui sintomi principali sono:

  • Profondo senso di colpa
  • Rancore e rabbia nei confronti del partner
  • Paura di perdere l’amore
  • Paura dell’abbandono, della separazione
  • Paura della solitudine e della distanza
  • Terrore di mostrarsi per quello che si è
  • Senso di inferiorità verso il partner
  • Profonda gelosia
  • Dedizione totale al partner e annullamento di sé
  • Abbassamento dell’autostima
  • Senso di vergogna
  • Il dipendente dedica completamente tutto sé stesso all’altro, al fine di perseguire esclusivamente il suo benessere e non anche il proprio, come dovrebbe essere in una relazione “sana”. Chi ha una dipendenza affettiva, nell’amore vede la risoluzione dei propri problemi. Il partner assume il ruolo di un salvatore, egli diventa lo scopo della sua esistenza, la sua assenza anche temporanea da un profondo senso di angoscia. Per riempire questa voragine esistono tanti altri modi: l’alcool, il fumo, il cibo, il super lavoro, ma essi non la potranno mai colmare veramente, possono aiutare a distrarsi, a non sentire, ma non risolvono il problema di fondo. Chi è affetto da dipendenza affettiva non riesce a cogliere e a beneficiare dell’amore nella sua profondità ed intimità. A causa della paura dell’abbandono, della separazione, della solitudine, si tende a negare i propri desideri e bisogni e si ripropongono i copioni passati, gli stessi che hanno ostacolato la propria crescita personale.
    La dipendenza si stabilisce perché c’è il rifiuto. Se non ci fosse, quasi sempre il presunto amore finirebbe in un tempo incredibilmente breve. Quello che imprigiona nelle relazioni, il dipendente affettivo, è la speranza e presunzione di riuscire prima o poi nella vita a farsi amare da chi proprio non vuole farlo, o di riuscire a curare chi non può o non vuole essere curato, o di salvare chi non può o non vuole essere salvato. Gli individui dipendenti solitamente cercano una o poche relazioni esclusive, sia con il partner che con gli amici, così da riprodurre quello schema comportamentale instauratosi nella fase post-natale. Scelgono persone che sembrano in grado di affrontare la vita e che si possano prendere cura di loro e investono su queste figure di riferimento, responsabilità che altrimenti spetterebbero a loro in prima persona. Il soggetto dipendente, pur di compiacere l’altro, evita il conflitto ed ogni sorta di controversia per il timore dell’abbandono, rinnegando il proprio vero Sé. Quando non riesce a vivere un rapporto di coppia come un processo di crescita permanente, rimane intrappolato negli schemi disfunzionali appresi nel passato, alimentato dalle paure di solitudine e d’abbandono, e dalla speranza che l’altro si prenda cura di lui.
    La guarigione dalla dipendenza affettiva non è il distacco dalla persona o dalle persone da cui si era dipendenti, bensì l’acquisizione di un’autonomia affettiva; questo è ciò che permette di entrare consapevolmente e realmente in relazione con gli altri, perché li vogliamo, perché li scegliamo, non perché abbiamo bisogno di loro per esistere.
    Giungere a questo livello non è semplice, anche perché nonostante il forte malessere è molto difficile chiedere aiuto per la paura del rifiuto. Il momento significativo che porta i dipendenti affettivi a chiedere aiuto, come nelle diverse forme di dipendenza, avviene quando si tocca il fondo, quando si ha la percezione del vuoto, della perdita di identità, della rabbia e dalla frustrazione di non vedere ricambiata la dedizione e il loro amore. Durante questi dolorosi momenti si convincono che qualcosa non va, e trovano la spinta necessaria ad uscire dal circolo vizioso della dipendenza affettiva.
    In questo processo di acquisizione il ruolo di amici e persone care può essere fondamentale, ma non sufficiente.
    La ricerca di un esperto psicoterapeuta a cui affidarsi, permette di scoprire i nodi che hanno dato origine al circolo vizioso e di sperimentare una sana relazione di attaccamento, che può essere risolutiva, rispetto al malessere provato.

    IL DIPENDENTE AFFETTIVO NON SA, NON VUOLE, PRENDERSI RESPONSABILITA’ (di Ameya G. Canovi)

    Nel corso delle sviluppo il bambino passa da una condizione di estrema dipendenza dai genitori, dalle figure accudenti, per via via acquistare autonomia, capacità di fare da sé, prendere decisioni, rispondere delle proprie azioni.
    Il dipendente affettivo non apprende a fare per sé. Resta ancorato a un modello di comportamento in cui sono gli altri a fare per lui. E ai comportamenti corrispondono cognizioni a sostegno. Il sistema di credenze del dipendente affettivo si basa sulla convinzione che siano gli altri a doversi occupare della propria vita. Egli si muove nel mondo come avesse affettivamente 3/5 anni. In molti campi gli è tutto dovuto. Ha diritto a corsie preferenziali, vuole trattamenti di favori, esige risarcimenti.
    Spesso egli è convinto che siano gli altri a doversi occupare della sua vita. Egli si può permettere di non pagare, di essere scorretto. Se deve soldi, si può permettere di non restituirli, manda avanti altri nelle situazioni scomode.
    Mette in atto schemi tali da evitare sempre di affrontare i problemi. Non vuole mai stare scomodo. Se può, fa fare agli altri. Lascia conti in sospeso, non paga, si fa dare soldi da altri, manda altri a pagare per se stesso, non sa gestire la sua casa, non vuole fare sforzi, né fisici, né emotivi.
    Ha sempre scuse per schivare le responsabilità . Si lagna, fa la vittima, si piange addosso. È la persona più infelice del mondo, sempre con la faccia triste, l’espressione spenta, manca di energia vitale. Può portare le spalle curve, l’aspetto è in qualche modo cadente, le spalle spioventi, gli occhi spenti, tristi, come se chiedessero aiuto, la pelle pallida. E sovente invade, credendo di poter telefonare a qualsiasi ora, chiede favori, non sa rispettare i confini, sembra non rendersi conto di quanto può essere fastidioso. Non rispetta l’altro, sa solo pretendere. Si professa tanto sensibile, ma tale sensibilità riguarda soltanto i propri bisogni che vanno soddisfatti subito. Non sa sostenere né sostare nella frustrazione. Non tollera il no. Nelle relazioni NON dà.
    Succhia. Vampirizzza. Tuttavia sostiene di essere tanto buono e di dare tanto.
    Alcuni dipendenti affettivi dicono di non chiedere mai. È vero. Prendono. Pretendono. Se non a parole, implicitamente. Vittime sacrificali, hanno sempre un’aria da martiri. In realtà, martirizzano.
    Il dipendente affettivo non sa essere felice da solo. Deve sempre dipendere dall’esterno. La sua vita è costellata da SE.
    Se non mi chiami, allora io sono infelice. Se non mi pulisci tu la casa, io non ci riesco. Se non mi fai da mangiare, non mangio. Se non mi cerchi quando voglio io, non mi vuoi bene, sei crudele, non ti interesso, non ti importa nulla di me ecc. Di questi SE molto sa il dipendente affettivo. E attua mille ricatti. Espliciti o impliciti.
    ACCUDISCIMI
    RISOLVIMI TU I MIEI PROBLEMI
    AIUTAMI
    FAMMI
    DAMMI
    VAI TU AL MIO POSTO
    RISARCISCIMI
    AMAMI
    Se questo non accade sempre e comunque, nei tempi e nella quantità richiesta, il dipendente affettivo utilizza lamento, vittimismo, persecuzione, rimproveri, insulti. L’Altro è visto come una banca da utilizzare, e se non si presta, si trasforma in un mostro da colpevolizzare.
    Chi ha a che fare con tale dinamica prova un grande risentimento, si sente prosciugare, sente una forte pulsione di fuga e rifiuto. Invece di amore, il tanto agognato amore, il dipendente affettivo raccoglie distanza.

    La cosa che risulta apparentemente discordante fra questi due articoli, è come nel primo si parli del dipendente come di un “buon samaritano” che pensa solo all’altro tanto spesso da invaderlo (tentando, appunto, di curarlo o salvarlo identificandolo spesso in un personaggio negativo), mentre nel secondo il dipendente affettivo risulta una persona che pretende amore a prescindere nonostante i suoi bistrattamenti dell’altro. Credo che però i due articoli siano complementari, e che l’odio e le pretese descritte nel secondo articolo siano semplicemente la diretta conseguenza dei sacrifici di cui si scrive nel primo: della serie “ti dò tutto me stesso per farti essere ad immagine e somiglianza di ciò che voglio, e se non lo sarai, ti odierò e riproverò a farlo”.

    Spero di esservi stata utile con questi articoli, cercando di analizzare i pro e i contro di un problema… che strano parlare dell’amore come di un problema da risolvere! Soprattutto quando lo si deve risolvere con se stessi… e con se stessi spesso il problema è che quel ‘problema’ non esiste… quando non ci si ama!
    Ho scelto come immagine per questo post un quadro di Magritte, “Gli amanti”. Hanno il volto coperto da lenzuola: sono due ruoli e non due identità.Il ruolo della vittima e del carnefice, i ruoli del salvatore e della vittima e del persecutore, i ruoli di un amante e di un amato, e quasi sempre in una coppia queste lenzuola vengono scambiate tra i protagonisti in un assurda ruota che gira e che rende entrambi vittime sacrificali di una dinamica da fermare il prima possibile.
    Concludo con una frase di un libro della Norwood intitolato “Un pensiero al giorno per donne che amano troppo”. L’ho scelto perché è un pensiero propositivo e positivo:

    Al pari di chi mangia compulsivamente, noi donne che amiamo troppo dobbiamo imparare a fare in modo sano ed equilibrato ciò che prima facevamo in modo ossessivo. Poiché mangiare e avere relazioni sono entrambi aspetti essenziali del vivere, non si può tracciare una linea netta di demarcazione e, in base a quella, individuare un comportamento ‘normale’. La guarigione, pertanto, non è questione di passaggio da un estremo all’altro, quanto di gradazione, rispetto alla nostra condizione e al nostro atteggiamento di prima”.