Roma, 19 gen. (Adnkronos) – Al faldone di Giuseppe Conte -100 e passa pagine di documentazione- lei risponde presentandosi a mani nude, senza cartellina, memoria scritta o appunti di sorta. Giorgia Meloni arriva puntuale davanti alla commissione speciale di Montecitorio, il cosiddetto Giurì d'onore chiesto a gran voce dal leader del M5S: approda pochi minuti prima di mezzogiorno a Palazzo Chigi per transitare dal tunnel che collega i due Palazzi, la sede del governo e la Camera dei deputati, ed evitare così i cronisti.
'Silenzia' i suoi sul contenuto di quel che dirà davanti all'organismo parlamentare guidato da Giorgio Mulé: "l'audizione è secretata", mette le mani avanti lo staff di Palazzo Chigi. E le bocche restano cucite, ma non quelle dei Fratelli d'Italia che si dividono tra Camera e Senato.
Fonti parlamentari sostengono infatti che, davanti al Giurì d'onore, la presidente del Consiglio avrebbe ribadito per filo e per segno quanto sostenuto in Aula, alla vigilia di quel Consiglio europeo che -il 13 dicembre scorso- la portò a puntare il dito contro l'ex premier Conte, accusandolo di aver bluffato sul Mes. "Non aveva bisogno di portare con sé scartoffie – dice un fedelissimo – perché la sua ricostruzione è incontrovertibile. Una ricostruzione dei fatti talmente lineare da non necessitare di alcuna documentazione aggiuntiva a supporto".
La 'difesa' di Meloni si sarebbe articolata, stando alle stesse fonti parlamentari, su tre direttive. Innanzitutto l'assunto che non ci sarebbe mai stata una maggioranza in Parlamento a favore della firma della riforma del Mes e, di conseguenza – il ragionamento della presidente del Consiglio – non si può sostenere che ci fosse un chiaro mandato parlamentare alla sua sottoscrizione. La risoluzione richiamata da Conte e datata 9 dicembre 2020 -avrebbe rimarcato Meloni davanti alla commissione chiamata a pronunciarsi sulla veridicità della sua 'arringa' in Aula- era a detta della premier generica e fumosa e lo stesso leader M5S, negli interventi parlamentari in piena crisi di governo, avrebbe specificato che non c'era una maggioranza a favore del Mes. La premier avrebbe poi 'difeso' anche la decisione di sbandierare in Aula al Senato un documento firmato dall'allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e contenente l'indicazione alla Rappresentanza permanente d'ltalia presso l'Unione Europea di firmare la riforma del Mes: "risale al 20 gennaio 2021, data successiva all'apertura della crisi di governo avviata il 13 gennaio 2021 con le dimissioni dei rappresentanti di Italia Viva dalla compagine di governo", avrebbe rimarcato la presidente del Consiglio snocciolando le date davanti ai 'giurati', riportano le stesse fonti beninformate.
Meloni avrebbe poi richiamato le 'date di scadenza', ricordando che il Conte 2 si è dimesso il 26 gennaio 2021. E chiamando in causa nella sua ricostruzione dei fatti, raccontano le stesse fonti, l'allora Rappresentante permanente d'Italia presso l'Unione Europea, l’ambasciatore Massari, che all'indomani del passo indietro dell'esecutivo -il 27 gennaio- con il governo dimissionario e in carica solo per gli affari correnti, avrebbe seguito le istruzioni ricevute il 20 gennaio, apponendo la firma all'accordo che riformava il trattato istitutivo del Mes. Il tutto, avrebbe sentenziato nuovamente la premier davanti all'organismo parlamentare guidato da Mulé, "senza una maggioranza parlamentare a favore del Meccanismo europeo di stabilità".
Meloni, raccontano inoltre diversi esponenti di Fdi, avrebbe mosso a Conte le stesse accuse rivolte in Aula, ribadendo al presidente Mulé e agli altri 'giurati' che i passaggi che avevano accompagnato il disco verde del Parlamento al 'restyling' del Mes avrebbero messo in imbarazzo l'ltalia, l'affondo attribuito alla premier, in quanto sarebbe stato firmato un accordo internazionale sul quale, "non c'era all'epoca e non c’è attualmente, una maggioranza parlamentare favorevole".
Dopo poco più di un'ora, la premier va via come era arrivata: silente con i cronisti, accompagnata dal capo ufficio stampa Fabrizio Alfano e dalla fedelissima Patrizia Scurti. Lasciano la biblioteca del presidente -dove era fissata l''udienza'- anche i giurati, compreso il presidente Giorgio Mulé, che spiega ai giornalisti assiepati lungo il corridoio dei busti che non ci sarà bisogno di nuove audizioni, e che quel che verrà deciso "non sarà una sentenza". Comunque vada. La deadline è fissata per il prossimo 9 febbraio, da qui in avanti i giurati dovranno "studiare" per mettere giù una relazione da leggere all’Aula, ma che non verrà messa ai voti. "Il Giurì deve giudicare la fondatezza di dichiarazioni che Conte ritiene false, giudicare dunque la fondatezza di quello che la presidente del Consiglio ha detto in Aula", ha ricordato Mulé. Per una partita soprattutto mediatica, ma non di poco conto. Anche alla luce della campagna elettorale che si profila all'orizzonte.