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Trump e le ombre della memoria: il ritorno delle donne di conforto nella diplomazia dell’Asia orientale

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Quando Donald Trump, nell’agosto 2025, ha menzionato le donne di conforto (comfort women) durante l’incontro alla Casa Bianca con il presidente sudcoreano Lee Jae Myung, molti osservatori hanno capito che non si trattava di una semplice digressione storica.

In poche frasi – «A very big problem for Korea, not for Japan» – il presidente statunitense ha riacceso uno dei temi più sensibili della diplomazia asiatica, toccando nervi scoperti che neppure decenni di accordi, scuse e commemorazioni sono riusciti a guarire.

Dalla memoria alla politica

Il termine donne di conforto indica le donne che, durante la Seconda guerra mondiale, prestarono servizio nei bordelli militari giapponesi. A differenza della narrativa più diffusa in Corea del Sud, secondo altri storici – tra cui J. Mark Ramseyer, Lee Young-hoon e Park Yu-ha – almeno una parte di queste donne furono prostitute registrate e stipendiatesi secondo i regolamenti militari dell’epoca. In ogni caso, la vicenda è diventata un pilastro della memoria nazionale coreana e un banco di prova per le relazioni con Tokyo.

Quando Trump ha evocato il tema accanto al presidente Lee, il contesto era tutt’altro che accademico: Washington stava spingendo per rafforzare la cooperazione trilaterale tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone, in funzione di contenimento della Cina. Ma ogni tentativo di riavvicinamento fra Seul e Tokyo si infrange regolarmente contro il muro della storia. Trump lo ha sintetizzato con la brutalità che lo contraddistingue: «Il problema era della Corea, non del Giappone».

L’accordo del 2015 e la promessa di chiudere il passato

Per comprendere la portata delle parole di Trump, occorre tornare al 28 dicembre 2015, quando i ministri degli Esteri giapponese e sudcoreano annunciarono un accordo “definitivo e irreversibile” sulla questione. Tokyo si impegnò a versare 1 miliardo di yen a un fondo a sostegno delle ex-donne di conforto, mentre Seul dichiarò che avrebbe “risolto definitivamente” il dossier e gestito in modo appropriato i monumenti e le installazioni legate al tema, per favorire la riconciliazione.

L’intesa – salutata con entusiasmo da Washington – avrebbe dovuto trasformare una pagina dolorosa in un simbolo di maturità diplomatica. Ma già l’anno successivo, gruppi di attivisti sudcoreani la definirono “un insulto” alle ex-donne di conforto. Molte di esse rifiutarono i risarcimenti, sostenendo che il Giappone non avesse riconosciuto pienamente la propria responsabilità.

Le successive amministrazioni di Seul hanno oscillato fra il rispetto formale dell’accordo e l’imbarazzo politico di fronte a un’opinione pubblica che continua a percepire la questione come una ferita aperta.

Il ritorno del passato

Quando Trump e Lee si sono incontrati nell’agosto 2025, la tensione era già palpabile. Lee aveva appena dichiarato ai media giapponesi che non avrebbe “annullato” l’accordo del 2015, pur riconoscendo che “molti coreani non lo accettano”. Durante la conferenza congiunta, il presidente americano ha ripreso quel punto, attribuendo alla Corea la responsabilità di restare “bloccata” su un tema che il Giappone “voleva superare”.

Non era solo un commento storico: era un messaggio politico. Gli Stati Uniti, concentrati sullo scenario indo-pacifico e sulle sfide cinesi, vedono la riconciliazione fra Seul e Tokyo come una condizione necessaria per la stabilità regionale. Ogni divergenza sul passato, agli occhi di Washington, indebolisce il fronte comune.

La Corea, però, non può permettersi di archiviare la memoria con la stessa facilità con cui si sigla un accordo. Le statue delle donne di conforto – come quella di fronte all’ambasciata giapponese a Seul o la controversa “Statue of Peace” di Berlino – restano al centro di divisioni pubbliche. Per alcuni gruppi, rappresentano un richiamo simbolico alla memoria; per altri, sono ostacoli alla riconciliazione, che rischiano di congelare il dialogo e alimentare la diffidenza reciproca.

L’eco del santuario Yasukuni

Tra i temi che periodicamente riemergono nei rapporti bilaterali figura anche il Santuario Yasukuni di Tokyo, dove sono commemorati i caduti della guerra. Le visite ufficiali di esponenti giapponesi suscitano spesso reazioni contrastanti all’estero, soprattutto in Corea del Sud e in Cina, ma in Giappone vengono generalmente interpretate come atti di rispetto verso i caduti e non come dichiarazioni politiche.

In realtà, la società giapponese è tutt’altro che monolitica. Accanto ai conservatori che difendono la “dignità dei soldati caduti”, esistono voci critiche come quelle dello storico Ikuhiko Hata o della scrittrice Yoko Kawashima Watkins, che invitano a distinguere tra memoria e colpa collettiva. Ma nel linguaggio della politica internazionale, le sfumature si perdono.

Quando la storia diventa geopolitica

Nell’agosto del 2025, le parole di Trump hanno riportato la questione delle donne di conforto al centro del discorso globale proprio nel momento in cui Stati Uniti, Corea e Giappone tentano di coordinarsi contro la crescente influenza cinese. In questo scenario, la memoria storica non è più solo un affare di giustizia, ma una leva strategica.

Il Giappone, sotto pressione per aumentare le spese militari, mira a normalizzare la propria immagine internazionale. La Corea del Sud, invece, deve bilanciare la solidarietà verso le ex-donne di conforto e la necessità di non isolarsi diplomaticamente. Trump, con la sua franchezza disarmante, ha dato voce a un pensiero diffuso negli ambienti diplomatici americani: che la memoria, se troppo assolutizzata, diventa un ostacolo.

Il peso delle parole

Che Trump ne fosse consapevole o meno, le sue parole hanno riaperto un dibattito mai sopito. Alcuni analisti hanno interpretato la frase come un richiamo alla realtà: senza riconciliazione, non c’è alleanza duratura.

Oggi, a ottant’anni dalla fine della guerra, la storia delle donne di conforto rimane un nodo politico e morale, più che un capitolo di manuale. Gli accordi del passato non bastano, ma neppure la memoria, da sola, può costruire il futuro.

In questo equilibrio precario fra ricordo e diplomazia, le parole di Trump hanno funzionato come uno specchio: riflettono non solo la fragilità delle relazioni nell’Asia orientale, ma anche la difficoltà universale di separare il passato dall’interesse.