Se n’è andata il primo giorno d’autunno. Jane Goodall, 91 anni, morta a Los Angeles. Cause naturali. Una notizia arrivata in punta di piedi, confermata dal Jane Goodall Institute con una nota asciutta, quasi fredda. Ma il vuoto, quello, non è affatto freddo.
Jane Goodall e gli scimpanzé, la donna che cambiò lo sguardo sull’animalità
Nata a Londra il 3 aprile 1934, Jane Morris Goodall era già allora una bambina che osservava troppo. Non un difetto, piuttosto un vizio che le restò addosso. Lo raccontava lei stessa in un’intervista a BBC nel 2019: “Mia madre mi lasciava libera. Una volta mi ha cercato per ore, ero nel pollaio a capire come fanno le galline a deporre le uova. Tornai tutta felice, invece di punirmi mi ascoltò”.
È una scena domestica, minuta, ma che racconta tutto. A tre anni aveva già con sé un compagno inseparabile: uno scimpanzé di pezza, Jubilee, regalo dello zoo di Londra. Gli altri bambini lo trovavano mostruoso. Per lei era dolce. E in quel peluche, chissà, c’era già un presagio.
Gli anni passano, i libri d’avventura la catturano. Scriveva diari e osservava anche il cane e il gatto di casa come fossero creature di un altro pianeta. Nessuno, allora, avrebbe immaginato che quella curiosità infantile avrebbe messo in crisi un pilastro della scienza: che solo l’uomo è in grado di usare strumenti.
Arrivò in Africa senza titoli accademici solidi. Nel 1957 parte per il Kenya. Lì incontra Louis Leakey, antropologo, figura decisiva. Fu lui a dirle: vai a Gombe, in Tanzania. Osserva. E così, nel 1960, cominciò la storia. Non numeri agli animali, ma nomi. Non distacco, ma vicinanza? “Era rivoluzionario. Jane non descriveva individui in modo freddo, li riconosceva come persone non umane”, spiega oggi all’Associated Press Frans de Waal, primatologo.
La svolta? Documentare con pazienza e con telecamera accesa, scimpanzé che infilano ramoscelli nei termitai per estrarre formiche. Un gesto semplice, che distrusse la certezza antropocentrica. “Dobbiamo ridefinire l’uomo. O accettare che gli scimpanzé siano umani”, scrisse allora Leakey, citato dal New York Times.
Negli anni arrivarono il dottorato a Cambridge, nel ’75 il libro “In the Shadow of Man”, nel ’77 il Jane Goodall Institute. Una carriera accademica costruita a posteriori, ma fondata su intuizioni da outsider.
Jane Goodall e gli scimpanzé, un’eredità che mescola scienza e coscienza
La sua eredità non è solo bibliografia… È culturale. Ha convinto milioni di persone che gli scimpanzé hanno emozioni, piangono, si arrabbiano, si riconciliano. Insomma, che non siamo poi così diversi. Ha spostato il confine dell’animalità. “Era impossibile restarle indifferenti. Parlava e ti guardava come se fossi parte della sua missione”, racconta in un ricordo a National Geographic un’ex collaboratrice, Mary Lewis.
C’era anche un lato curioso, a volte trascurato: Jane Goodall soffriva di prosopagnosia, cioè difficoltà a riconoscere i volti… Lo disse più volte, per esempio a The Guardian: “Non ricordo bene le facce, ma riconosco i gesti, i movimenti. È così che capivo le persone. E gli scimpanzé”. Una fragilità che diventò talento: concentrarsi sui dettagli minimi, la postura, i tic. Proprio ciò che serviva per leggere un branco.
Negli anni non si fermò mai. Conferenze ovunque, viaggi infiniti, fino all’ultimo. Nel 1991 fondò Roots & Shoots, un programma per i giovani in oltre 60 Paesi. Diceva sempre che ogni ragzzo ha il potere di cambiare il mondo. Un mantra ripetuto fino a stancarsi, ma che lei non smise mai di pronunciare.
E poi quella sua voce calma, che non urlava mai. Una calma che in realtà era una lama. Non accusava, ma ti lasciava il senso di colpa addosso. “La sua grandezza non era solo scientifica, era morale”, ha detto oggi il biologo Marc Bekoff a Reuters.
Ora, a 91 anni, se n’è andata. Ma lascia dietro di sé un insegnamento scomodo: la curiosità non va repressa, la natura non è altro da noi. Ed è curioso che tutto, forse, sia cominciato da un peluche con le sembianze di uno scimpanzè di stoffa.