Black Mirror: tematiche e analisi della serie

Breve analisi di una delle serie più innovative e, a detta di molti, profetiche del panorama televisivo contemporaneo. Quando si parla di Black Mirror, sia a livello di critica televisiva che sul piano del semplice scambio di opinioni tra appassionati e binge watchers, l'aggettivo più ricorrente ...

Breve analisi di una delle serie più innovative e, a detta di molti, profetiche del panorama televisivo contemporaneo.

Quando si parla di Black Mirror, sia a livello di critica televisiva che sul piano del semplice scambio di opinioni tra appassionati e binge watchers, l’aggettivo più ricorrente è senza dubbio “profetico”. Come se la popolare serie TV britannica, giunta trionfalmente alla quarta stagione – in realtà si tratta degli ultimi sei episodi della terza, inizialmente concepita su dodici appuntamenti e solo in seguito tagliata in due -, avesse aperto squarci visionari di futuro che altri, prima del creatore Charlie Brooker e del suo team di sceneggiatori, non avevano, almeno in parte, immaginato e portato sullo schermo.

Iperboli a parte, e tralasciando il fatto che cineasti come David Cronenberg e Peter Weir potrebbero legittimamente risentirsi per non essere mai stati chiamati in causa come tutt’altro che accidentali “progenitori”, è fuor di dubbio che la serie, a livello di concept così come sul piano dello sviluppo dei singoli episodi, abbia portato delle novità significative all’interno di un già ipertrofico panorama della fiction televisiva di qualità. Non a caso, alla potente produzione targata Endemol si sono affiancati, sul piano del broadcasting, due realtà come Channel 4 – in principio – e Netflix – in epoca più recente, quando il successo della serie ha quasi imposto una distribuzione più ad ampio raggio -, da sempre attente alla qualità del prodotto e, soprattutto, alla diversità dello stesso rispetto all’offerta già esistente.

Ma cosa fa di Black Mirror una serie TV così fuori dal comune? Innanzitutto, la dimensione autoriale del prodotto. Charlie Brooker è una figura fortemente atipica della TV inglese: presentatore di programmi considerati “di nicchia”, columnist per autorevoli testate, showrunner e produttore, si è fatto un nome soprattutto come autore satirico e acuto osservatore della realtà multimediale: nel suo curriculum figurano esperienze, spesso intersecate tra loro, in radio come su alcuni portali web di informazione, oltre che in TV e sulla carta stampata.

Questa formazione così complessa si è riversata sullo show, che parte da un setup tipico della fantascienza distopica (come sarebbero il nostro mondo e la nostra realtà se…?) e dall’osservazione dei meccanismi della televisione e degli altri mezzi di comunicazione che implicano l’atto del guardare (lo specchio nero del titolo è, per l’appunto, lo schermo spento di un qualunque dispositivo di registrazione e/o riproduzione audiovisive) per definire uno sguardo, perlopiù apocalittico, sulla galassia mediale e sulla sua capacità di influenzare, spesso in maniera nefasta, l’esistenza di milioni di persone.

Tuttavia, a differenza di altre serie TV che gravitano, grossomodo, sullo stesso tema – si pensi, al recente successo di Mr. Robot, maggiormente incentrata sull’universo telematico -, in Black Mirror a dominare è soprattutto un certo humour nero di autentica marca British.
In secondo luogo, la struttura. Black Mirror è una serie TV antologica, ogni puntata – in linea di massima autoconclusiva – è caratterizzata da personaggi diversi, situazioni diverse e, per dirla con le parole dello stesso Brooker “persino una diversa realtà”.

Questo, se da un lato non permette una fidelizzazione spettatoriale basata sui personaggi, dall’altro consente agli autori una libertà creativa pressoché limitata, che permette loro di spaziare all’interno degli ambiti di indagine più eterocliti. Così, in Black Mirror troviamo la televisione generalista come il mondo dei social network, la realtà virtuale e la giungla dell’editoria online, la realtà aumentata e il confine sempre più labile tra l’Internet ufficiale e il deep web.

Se una serie di successo come True Detective si accontenta, per così dire, di sostanziare la propria natura antologica cambiando personaggi e setting di stagione in stagione, Charlie Brooker porta alle estreme conseguenze tale pratica, ridefinendo i contorni della continuity narrativa attorno a un macrotema piuttosto che sulle fisionomie di figure ricorrenti di episodio in episodio. Nulla di nuovo nel panorama della serialità televisiva, dal momento che già negli anni Sessanta prodotti di culto come Alfred Hitchcock Presenta e Ai confini della realtà giocavano sulla medesima impostazione: va però riconosciuto a Black Mirror il merito di aver recuperato un’idea di serialità obliqua, spesso marginalizzata dai grandi canali di distribuzione a causa degli alti rischi d’impresa che comporta (se il pubblico non si affeziona ai personaggi, quante probabilità ci sono di vedersi cancellato lo show?), e di averla imposta a colpi di idee, quasi sempre brillanti, spesso sorprendenti, talvolta persino geniali.

E questa non è un’iperbole.