Myanmar: nuove accuse di Amnesty International sul caso dei Rohingya

Accusa di apartheid istituzionalizzata contro i Rohingya da parte di Amnesty international contro il governo del Myanmar, guidato da Aung San Suu Kyi.

Non si fermano le violenze sui musulmani Rohingya in Myanmar.

Violenza che da mesi ormai insanguina in maniera atroce e gratuita le cronache internazionali. Episodi che hanno testimoniato della bestialità del governo del Myanmar che si è comportato selvaggiamente contro i suoi cittadini musulmani. Una storia che da più parti è stata citata e condannata dalle maggiori autorità politiche e religiose a livello mondiale. Davanti a simili accuse il premier e premio Nobel Aung San Suu Kyi ha risposto con indifferenza o ha preferito non affrontare la realtà dei fatti.

Più spesso ha definito le violenze sui Rohingya come false accuse. Tuonano nel frattempo nuove accuse per l’ex-Birmania da parte di Amnesty international.

Il regime segregazionale usato con i Rohigya è stato definito come Apartheid. Una violenza istituzionale, promossa e perpetrata dallo stato del Myanmar che ha generato un esodo di 600 milioni di persone verso il vicino stato del Bangladesh. Un regime violento che mette a dura prova la sopravvivenza di un popolo, già da tempo oggetto di violenze atroci.

Il Myanmar secondo Amnesty

Il nuovo rapporto investigativo di Amnesty è il risultato di una indagine che durava da due anni. L’intitolazione del rapporto è significativa: “In gabbia senza un tetto“. Il riferimento è allo Stato di Rakhine, dove i Rohingya sono ammassati e costretti a vivere in condizioni spaventose. Una enorme prigione a cielo aperto dove si vive la ghettizzazione più totale dal resto del paese. Amnesty non teme di usare il termine di crimine contro l’umanità nel rapporto.

Segregazione e terrore in un disumano sistema di apartheid” – così avrebbe tuonato la direttrice della ricerche di Amnesty, Anne Neistat.

Le indagini hanno rivelato una impennata delle violenze già a partire dal 2012, in una escalation di scontri tra la comunità buddhista (il Myanmar è un paese a maggioranza Buddhista) e la comunità musulmana. Già da molto tempo la popolazione musulmana gode di una interrotta discriminazione perpetrata attraverso una totale assenza di elementari diritti giuridici.

Nel 1982 venne istituita una Legge sulla Cittadinanza che negava loro quest’ultima in base alla loro etnia. Negli ultimi 10 anni il Governo ha avviato una campagna volta a privare i Rohingya dei documenti ufficiali di riconoscimento, come il certificato di nascita e la carta d’Identità. Un problema che rischia di far sparire nel nulla migliaia e migliaia di persone. Problema che nega ai profughi la possibilità di rientrare nel paese natale.

La comunità internazionale

Il problema dei Rohingya non è stato ancora preso col massimo della serietà dalle maggiori autorità politiche internazionali. Malgrado gli appelli fatti, pare che gli episodi cadano nell’indifferenza generale. Nell’indifferenza naviga anche il premier del Myanmar Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. La mancata reazione contro questo incubo quotidiano che nega ogni libertà fisica a dei nostri simili, rischia di diventare “normale” se la comunità internazionale non decide di intervenire.

Una macchia enorme per tutti, una macchia indelebile sulle coscienze.