Milano, 6 ott. (Adnkronos Salute) – Il premio Nobel per la Medicina o la Fisiologia 2025 è stato assegnato a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi per le loro "scoperte rivoluzionarie sulla tolleranza immunologica periferica, che impedisce al sistema immunitario di danneggiare l'organismo.
"Le loro scoperte hanno gettato le basi per un nuovo campo di ricerca e stimolato lo sviluppo di nuovi trattamenti, ad esempio per il cancro e le malattie autoimmuni", recita la motivazione.
Ad annunciare i vincitori dal Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia, è stato il segretario generale dell'Assemblea dei Nobel, Thomas Perlman. I tre scienziati si divideranno 11 milioni di corone svedesi, lo stesso ammontare degli ultimi 2 anni, pari a circa 1 milione di euro.
Nel nostro sistema immunitario c'è un servizio di 'security' che fa sì che le cellule immuni non sbaglino obiettivo attaccando il nostro stesso organismo. Queste guardie di sicurezza sono le cellule T regolatorie e a scoprirle sono stati Brunkow, Ramsdell e Sakaguchi. "Le loro scoperte sono state decisive per comprendere il funzionamento del sistema immunitario e il motivo per cui non tutti sviluppiamo gravi malattie autoimmuni", afferma Olle Kämpe, presidente del Comitato per il Nobel.
Questa storia comincia nel 1995, quando lo scienziato giapponese Shimon Sakaguchi (74 anni) fa la prima scoperta fondamentale, andando all'epoca controcorrente rispetto alla convinzione diffusa e sostenuta da molti ricercatori che la tolleranza immunologica si sviluppasse solo per l'eliminazione di cellule immunitarie potenzialmente dannose nel timo, attraverso un processo chiamato tolleranza centrale. Sakaguchi ha dimostrato invece che il sistema immunitario è più complesso e ha scoperto che una classe di cellule immunitarie precedentemente sconosciuta protegge l'organismo dalle malattie autoimmuni. Un primo punto fermo.
Il potente sistema immunitario umano, in altre parole, deve essere regolato, altrimenti potrebbe attaccare i nostri stessi organi. Sakaguchi e gli americani Mary E. Brunkow (64 anni) e Fred Ramsdell (65) hanno scoperto come si tiene sotto controllo. Le loro ricerche sulla tolleranza immunologica periferica hanno rivoluzionato lo sguardo che la scienza aveva fino a quel momento sulle sentinelle del nostro organismo. Sentinelle che ogni giorno ci proteggono da migliaia di microbi diversi che cercano di invaderci. Questi hanno tutti un aspetto diverso e molti hanno sviluppato somiglianze con le cellule umane come forma di mimetizzazione. Come fa il sistema immunitario a stabilire cosa attaccare e cosa difendere? Qui entrano in gioco gli studi da Nobel.
Dopo le intuizioni di Sakaguchi, da Brunkow e Ramsdell arriva l'altra scoperta fondamentale nel 2001: gli esperti riescono a spiegare il motivo per cui uno specifico ceppo di topi fosse particolarmente vulnerabile alle malattie autoimmuni. Questi roditori presentavano una mutazione in un gene che Brunkow e Ramsdell battezzano Foxp3, dimostrando anche che mutazioni nell'equivalente umano di questo gene causano una grave malattia autoimmune, la sindrome Ipex. Due anni dopo interviene di nuovo Sakaguchi, riuscendo a collegare le scoperte: lo scienziato dimostra che il gene Foxp3 regola lo sviluppo delle cellule da lui identificate nel 1995. Queste cellule, oggi note come cellule T regolatorie, monitorano altre cellule immunitarie e garantiscono che il nostro sistema immune tolleri i nostri tessuti. Le scoperte dei vincitori hanno dato il via al filone che ha esplorato i segreti della tolleranza periferica, stimolando lo sviluppo di trattamenti medici per il cancro e le malattie autoimmuni. Questo campo potrebbe anche portare a trapianti più efficaci. Molti dei trattamenti sono ora in fase di sperimentazione clinica.
Il sistema immunitario è un capolavoro evolutivo. Senza, non sopravviveremmo. Una delle meraviglie è proprio la capacità di identificare i patogeni e differenziarli dalle cellule del corpo stesso. I 'cattivi' non indossano un'uniforme unica, hanno sembianze diverse, si mimetizzano. I ricercatori hanno creduto a lungo di conoscere la risposta alle domande su come facesse il sistema immunitario a identificare i nemici e risparmiare le cellule amiche: una risposta legata al fatto che le cellule immunitarie maturano attraverso un processo chiamato tolleranza immunologica centrale. Ma, come dimostrato dai neo premiati, le cose sono più complesse. Si gettano così le basi per un nuovo campo di ricerca che sta dando i suoi frutti. E la speranza è di poter trattare o curare malattie autoimmuni, fornire strategie anticancro più efficaci e prevenire gravi complicazioni dopo i trapianti di staminali.
I protagonisti di questa storia, le cellule T del sistema immunitario, sono i nostri protettori vitali, attori essenziali nella difesa dell'organismo. Nel nostro sistema ci sono cellule T dette helper che pattugliano costantemente l'organismo e, se scoprono un microbo invasore, allertano altre cellule immunitarie che scatenano una risposta immunitaria. Poi entrano in azione le cellule T killer, che eliminano le cellule infettate da un virus o da altri patogeni e possono anche attaccare le cellule tumorali. E ovviamente ci sono anche altre cellule immunitarie con funzioni diverse. Ma tornando ai linfociti T, loro hanno sulla superficie proteine speciali chiamate recettori dei linfociti T, paragonabili a dei sensori. Utilizzandoli, queste cellule possono scansionarne altre per scoprire se il corpo è sotto attacco. I recettori dei linfociti T sono speciali perché, come i pezzi di un puzzle, hanno forme diverse. Sono costituiti da molti geni combinati casualmente. In teoria, ciò significa che il corpo potrebbe produrre un numero enorme di diversi recettori di linfociti T, pari a 10 alla 15esima (nell'ordine dei milioni di miliardi). E questo garantisce che ce ne siano sempre alcuni in grado di rilevare un microbo invasore, inclusi nuovi virus come quello responsabile della pandemia di Covid-19.
Tuttavia, si creano inevitabilmente anche recettori che possono attaccare parti dei propri tessuti. Quindi, cosa fa sì che i linfociti T reagiscano solo ai microbi ostili? Negli anni '80 i ricercatori avevano capito che, quando i linfociti T maturano nel timo, vengono sottoposti a un tipo di test che elimina quelli che riconoscono le proteine endogene dell'organismo. E' la tolleranza centrale. Alcuni studiosi sospettavano l'esistenza anche di linfociti T soppressori, che si riteneva si occupassero dei 'colleghi' sfuggiti al test nel timo. Ma le conclusioni dei primi esperimenti apparivano inverosimili. A imprimere la svolta è Sakaguchi, navigando controcorrente. L'esperto, allora in forze all'Aichi Cancer Center Research Institute di Nagoya, in Giappone, intuì che il sistema immunitario doveva avere una guardia di sicurezza. All'inizio degli anni '80, quindi, isola le cellule T maturate in topi geneticamente identici e le inietta in quelli privi di timo. L'effetto è interessante: sembrano esserci cellule T in grado di proteggere i topi da malattie autoimmuni. Questi e altri dati convinsero Sakaguchi che il sistema immunitario dovesse avere linfociti T in grado di 'calmare' gli altri e tenerli sotto controllo. Era una nuova classe di cellule T, e ci vollero più di 10 anni perché riuscisse a presentarla al mondo. Lo scienziato, infatti, dovette trovare un modo per differenziare i vari tipi di linfociti T. Sul 'Journal of Immunology' spiegò che le cellule T regolatorie sono caratterizzate non solo dal portare sulla loro superficie CD4, ma anche una proteina chiamata CD25.
Molti ricercatori però erano scettici, volevano più prove. Prove che sarebbero arrivate da Brunkow e Ramsdell. E' il secondo atto del Nobel per la Medicina 2025, che si apre con la nascita di topi maschi 'malaticci' in un laboratorio statunitense degli anni '40. In questo centro, a Oak Ridge nel Tennessee, si stavano studiando le conseguenze delle radiazioni. Il lavoro faceva parte del Progetto Manhattan e dello sviluppo della bomba atomica. Il ceppo di topi da Nobel è un caso evolutivo fortuito: a catturare l'attenzione degli esperti sono alcuni maschi – a cui viene dato il nome di 'scurfy' – nati inaspettatamente con pelle squamosa, milza e ghiandole linfatiche molto ingrossate, e vissuti solo poche settimane. Ai tempi la genetica molecolare era agli albori, ma i ricercatori si resero conto che la mutazione che causava la malattia doveva essere localizzata sul cromosoma X: metà dei maschi erano malati e le femmine convivevano con la mutazione avendo due cromosomi X, di cui uno con Dna sano. Le femmine quindi trasmettono la mutazione scurfy alle nuove generazioni.
Negli anni '90, quando gli strumenti molecolari si affinano, si inizia a indagare sulle cause della malattia dei topi scurfy, scoprendo che gli organi venivano attaccati da linfociti T che distruggevano i tessuti. La mutazione sembra causare un ammutinamento nel sistema immunitario. Fra i ricercatori che si interessano alla mutazione scurfy ci sono Brunkow e Ramsdell. Entrambi lavorano in un'azienda biotech, Celltech Chiroscience, a Bothell (Washington) che sviluppa farmaci per malattie autoimmuni. Brunkow e Ramsdell prendono una decisione cruciale: dare la caccia al gene mutante. Negli anni '90 è come cercare un ago in un gigantesco pagliaio, ma lo trovano. Dimostrano che la mutazione scurfy è da qualche parte al centro del cromosoma X, restringono l'area a 500mila nucleotidi, poi avviano l'enorme lavoro di mappatura e stringono il cerchio su 20 geni potenziali. Scatta la sfida di confrontarli in topi sani e scurfy. Brunkow e Ramsdell esaminano gene dopo gene e solo al 20esimo e ultimo fanno bingo: è il gene Foxp3. Studiandolo, iniziano a sospettare che una rara malattia autoimmune, Ipex, anch'essa legata al cromosoma X, potesse essere la variante umana della malattia dei topi scurfy e, cercando in un database, trovano l'equivalente umano di Foxp3. Con l'aiuto di pediatri di tutto il mondo, raccolgono campioni da ragazzi con Ipex e arriva la conferma: hanno mutazioni dannose nel gene Foxp3.
Nel 2001, i risultati pubblicati su 'Nature Genetics' danno il via all'attività febbrile di diversi laboratori. Due anni dopo arriva il passo successivo di Sakaguchi, e a ruota di altri ricercatori: il gene Foxp3 controlla lo sviluppo delle cellule T regolatorie. L'impatto di queste scoperte fondamentali? Aprire la via a nuove strategie terapeutiche. Oggi diversi team stanno studiando modi per smantellare il muro di cellule T regolatorie e far sì che il sistema immunitario possa accedere ai tumori. Nelle malattie autoimmuni, invece, stanno cercando di promuovere la formazione di un maggior numero di linfociti T regolatori, somministrando in studi pilota interleuchina-2, che ne favorisce la proliferazione. E si sta valutando anche se questa possa essere usata per prevenire il rigetto di organi post trapianto. Altra strategia per rallentare un sistema immunitario iperattivo è isolare i linfociti T regolatori da un paziente e moltiplicarli in laboratorio, per poi reintrodurli più numerosi. In alcuni casi, i ricercatori applicano sulla superficie dei linfociti T anticorpi che funzionano come un'etichetta che permette loro di inviare le guardie di sicurezza cellulari a un fegato o a un rene trapiantati e di proteggerli dagli attacchi del sistema immunitario. Una storia ancora tutta da scrivere. (di Paola Olgiati e Lucia Scopelliti)