Salvini a processo: tre domande sul caso Gregoretti

Dopo il via libera del Senato al processo per Matteo Salvini, sorgono spontanei tre interrogativi sul caso Gregoretti.

Mandato a processo, anzi “in prigione”, per aver difeso la patria.

Il mantra che Matteo Salvini ripete dall’anno precedente – quando scoppiò il caso analogo della Diciotti, da cui fu salvato dal Senato – è stato reiterato con forza in questi giorni, con il voto sull’autorizzazione a procedere nel fascicolo Gregoretti: 135 migranti lasciati per giorni in alto mare, con la scabbia, a bordo di una nave della Guardia costiera (non di una Ong), violando così i loro diritti e abusando del suo ruolo, nonostante le pressioni del premier Conte e le rassicurazioni dell’Ue sulla loro redistribuzione.

Almeno tre domande.

La patria era minacciata?

Aveva così bisogno di essere difesa da dover ricorrere a misure tanto estreme? E da cosa? Che rischio potevano rappresentare un centinaio di naufraghi, tra cui donne e bambini, già presi in consegna da una nostra nave militare? Cosa dovrebbero fare allora Francia, Germania, Spagna, Belgio, Inghilterra, teatri della sanguinosa scia di attentati inaugurata nel 2016 dalla strage di Nizza? Nessuno dei quali è stato compiuto da stranieri arrivati sul barcone, ma da giovani immigrati di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in quei Paesi: segno che è l’intolleranza e la mancata integrazione a esasperare gli animi e tramutare in assassini; che il terrorismo non si “importa”, ma si nutre in loco; e che nessuno lascia la sua, di patria, con l’idea di investirne o accoltellarne il passante di un’altra.

L’Italia, anche perché primo paese di approdo e accoglienza, è stata l’unica grande nazione europea a non esser stata neanche sfiorata da un attentato. L’unico episodio, recente, si è verificato proprio con il leader leghista al governo – il folle conducente che lo scorso marzo a Milano ha provato a sequestrare un bus di studenti – e alla fine è stato scongiurato da un ragazzino egiziano.

È questa la maniera di difendere una patria?

Bloccare in balia delle onde delle persone scappate da fame e persecuzioni, stremate da un viaggio impossibile e desiderose solo di realizzare il loro diritto, in quanto esseri umani, a una vita migliore? Inoltre sono stati “sequestrati” solo quelli caricati dalle Ong: l’hashtag #portichiusi è valso sempre e solo per quelle decine di persone salvate da volontari (anche se poi scortate o trasbordate sulle nostre unità) e abbandonate al largo mentre – in contemporanea – a centinaia sbarcavano legittimamente, solo perché arrivati a riva con mezzi propri o presi in carico da imbarcazioni del dispositivo Ue.

Nessuno ci assicura che tra quelli non ci fosse qualche terrorista.

Perché, ricorderete, tutta la politica del “porto chiuso” è partita in virtù di un link, tra Ong e terrorismo, usato dall’ex ministro dell’Interno per giustificare la sua azione ma tutto da dimostrare: quell’uscita, del tutto irrituale nella storia della Repubblica, del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che nel 2017 rivelò – ai giornalisti e a indagini in corso – che stava lavorando su quella presunta connessione.

Non solo la sua inchiesta è sparita nulla, archiviata dal gip per totale assenza di prove, ma non c’è mai stata, in Italia e nel mondo, un sola richiesta di rinvio a giudizio né tantomeno una sentenza in tal senso. I terroristi non hanno scritto in fronte Isis, mentre le foto di donne e bambini stesi sul pontile le abbiamo viste tutti.

Era solo questo il “dovere” di Salvini?

Spettava proprio a lui difendere la patria? Se la minaccia all’ordine pubblico e il pericolo di destabilizzazione democratica è così grave e internazionale, coinvolgendo pure il terrorismo, il compito riguarda semmai il Consiglio supremo della Difesa e i suoi vari attori, capo dello Stato in primis. Era dunque questa la priorità annunciata da Salvini in campagna elettorale o il lavoro, le tasse, la salute? L’intera ascesa che i sondaggi gli accreditano è tutta concentrata in questa benedetta lotta all’immigrazione, selvaggia e non – causa d’ogni male.

La chiave ha fatto breccia nella pancia di tanti elettori porgendogli un bersaglio facile, un nemico fragile, ed eleggendolo a capro espiatorio di fronte all’impossibilità di venire a capo dei problemi dell’occupazione, della sanità, delle infrastrutture.

A parte l’ultimo periodo, in cui la guerra libica ha rilanciato in mare centinaia di profughi, gli sbarchi erano da anni in costante calo e tutti i dati certificano come i migranti siano ospitati in numero molto maggiore negli altri Paesi europei.

Insomma la retorica del martire, dell’agnello sacrificato al buonismo della “sinistra”, mandato al patibolo per calcolo politico, è appunto mera retorica. Da due anni Salvini sbandiera di voler essere processato: poteva rinunciare all’immunità, se ci teneva tanto. Non è il piccolo pusher di quartiere: sono la mafia e la corruzione endemica a rappresentare, oggettivamente, un pericolo per il nostro Paese, approfittandosi anche dell’emarginazione in cui vivono i nuovi arrivati.