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In un Paese già segnato dalla fragilità delle infrastrutture, la guerra ha spinto milioni di sudanesi sull’orlo del collasso totale. Tra le molte emergenze, quella idrica domina la scena come la più pressante e la più rivelatrice della precarietà della situazione umanitaria.
Khartoum, una città assetata
La capitale, Khartoum, sta vivendo una delle peggiori crisi degli ultimi decenni. Oltre il 60% dei suoi quartieri è quasi privo di acqua potabile, dopo che la maggior parte degli impianti di approvvigionamento è finita fuori servizio. I rapporti delle organizzazioni internazionali parlano di abitanti in fila dall’alba per ottenere un solo barile d’acqua e di bambini e donne diventati “ostaggi” delle rare autobotti. L’immagine della città restituisce il ritratto cupo di uno Stato che rischia di perdere la capacità di garantire ai propri cittadini i bisogni più elementari.
Questa crisi non è un semplice guasto tecnico o una circostanza contingente: la distruzione sistematica che ha colpito le stazioni idriche — secondo fonti locali — ha provocato una paralisi quasi totale delle reti, mentre la capacità operativa residua non supera il 10%. Così, procurarsi l’acqua a Khartoum è diventata una battaglia quotidiana non meno dura di quella per salvarsi dal fuoco della guerra.
Darfur… quando la vita diventa bersaglio dei bombardamenti
Se Khartoum soffoca per la sete, il Darfur affronta qualcosa di ancor più crudele. Rapporti locali hanno rivelato la distruzione di 15 fonti idriche su 18 nella zona di al-Zurq a causa dei raid aerei condotti dall’esercito sudanese, oltre alla distruzione di un complesso strategico con pozzi principali vicino a Mellit, da cui i pastori dipendevano per rifornire centinaia di migliaia di capi di bestiame.
Il giornalista Alaa al-Din Babakr ritiene che colpire le fonti d’acqua non sia un’azione casuale, ma uno strumento di guerra deliberato volto a dissanguare le comunità locali, privandole delle risorse vitali e spingendole allo sfollamento e alla rovina. Questa accusa riporta in primo piano una domanda etica fondamentale: quale esercito merita l’appellativo di “esercito nazionale” se le sue operazioni prendono di mira la vita dei civili e la loro ricchezza zootecnica?
Nyala… una finestra su un futuro diverso
In mezzo a questo quadro cupo, la città di Nyala, nel Sud Darfur, emerge come un’eccezione relativa. Le autorità locali hanno inaugurato un sistema integrato alimentato da energia solare per rimettere in funzione l’impianto idrico principale, con una capacità operativa che copre 12 quartieri e quattro ospedali. Il direttore dell’Autorità Idrica statale ha definito questa iniziativa “un salto di qualità” che rafforza la sostenibilità dell’approvvigionamento e riduce la dipendenza della città dai combustibili tradizionali.
Il significato di questo passo va oltre l’aspetto dei servizi: porta con sé un messaggio politico e sociale secondo cui è possibile costruire, all’interno del Sudan, un modello alternativo che ponga i bisogni del cittadino al centro delle priorità, anziché dissipare risorse nel vortice della guerra. Nyala, con i suoi tentativi di rafforzare sicurezza e servizi, sembra delineare i tratti di un “Sudan possibile”, se al progetto di rifondazione sarà consentito di proseguire.
Il Governo di Fondazione… un tentativo di cambiare le regole del gioco
Nel pieno di queste sfide, l’annuncio — agli inizi del 2025 — della formazione del Consiglio presidenziale del Governo di Fondazione ha rappresentato una svolta importante. Il nuovo esecutivo, guidato da Mohamed Hamdan “Hemetti” e dal suo vice Abdelaziz al-Hilu, si propone come alternativa politica basata su nuovi principi: uno Stato laico, democratico e decentrato, che riconosca la diversità e garantisca l’uguaglianza nella cittadinanza.
Da una prospettiva analitica, non si può sminuire la forza simbolica di questa proposta. In un Paese rimasto per decenni ostaggio dell’egemonia delle élite centrali e di orientamenti ideologici rigidi, la carta programmatica del Governo di Fondazione appare come un tentativo di sovvertire gli equilibri tradizionali che hanno generato guerre ricorrenti e crisi successive. Se questo progetto dovesse riuscire, potrebbe segnare un punto di svolta capace di traghettare il Sudan da uno Stato in perenne emergenza a uno Stato che ridefinisce se stesso su basi più inclusive e giuste.
La comunità internazionale… un banco di prova
La mossa del Governo di Fondazione non va letta solo nella sua dimensione interna, ma anche come un vero test per le posizioni della comunità internazionale. I Paesi e le organizzazioni che a lungo hanno invocato la fine della guerra e la costruzione di uno Stato civile si trovano ora di fronte a un’esperienza concreta che necessita di sostegno, non di semplici comunicati. Questo sostegno non significa schierarsi con una parte contro l’altra, quanto piuttosto investire in un’opportunità che potrebbe liberare il Sudan dalla stretta dell’estremismo e dei conflitti insensati, avviandolo su un percorso verso uno Stato moderno capace di gestire la propria diversità.
Tra guerra e rifondazione… quale Sudan prevarrà?
La sfida più grande oggi consiste nel conciliare la realtà di un Paese logorato dall’assedio dell’acqua e dal collasso umanitario con un progetto politico che mira a rifondare lo Stato su basi differenti. La strada è senza dubbio lunga e difficile, ma i segnali che giungono da Nyala e dalle riunioni del Consiglio presidenziale indicano l’esistenza di una volontà politica che prova a spezzare il circolo vizioso dell’esaurimento.
Resta la domanda fondamentale: la società sudanese — insieme alla regione e alla comunità internazionale — concederà a questo percorso una vera possibilità di radicarsi? O la voce delle armi continuerà a sovrastare quella della riforma?