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Violenza sulle donne: oltre il 25 novembre, l’emergenza che colpisce ogni giorno

La cultura che prepara il delitto: segnali ignorati e silenzi che pesano

Violenza sulle donne: segnali ignorati, disparità economiche e tutele insufficienti

Ci sono ricorrenze che, anno dopo anno, rischiano di diventare formule vuote. Il 25 novembre è una di quelle che più di tutte si espone a questo pericolo: troppe parole già dette, troppe panchine rosse fotografate, troppi minuti di silenzio che, il giorno dopo, vengono inghiottiti dal rumore di sempre. Eppure, ogni volta che arriva questa data, sento un nodo alla gola.

Perché per molte non è una ricorrenza: è vita quotidiana.

La violenza sulle donne non è un fatto isolato, né un’emergenza sporadica. È un sistema. Un intreccio di cultura, potere, linguaggi e omissioni. Lo vediamo nelle case, dove la maggior parte delle aggressioni avviene. Lo vediamo nei tribunali, quando il corpo e la credibilità delle vittime vengono processati più degli imputati. Lo vediamo nei titoli dei giornali, troppo spesso indulgenti verso i carnefici, morbidi nei verbi, accondiscendenti nelle narrazioni.

Ma lo vediamo anche in quegli spazi più sottili, apparentemente innocui: nei giudizi sussurrati, negli avvertimenti a “non provocare”, nella giustificazione sociale che chiama ancora “raptus” ciò che invece è dominio, controllo, disegno.

Quest’anno non vorrei parlare solo di violenza. Vorrei parlare di ciò che la precede e di ciò che può fermarla.

Violenza sulle donne: la cultura prima del delitto

Non esiste femminicidio che non sia stato preceduto da segnali: la gelosia mascherata da amore, l’isolamento dagli amici, lo sminuire, il “senza di me non sei niente”. È qui che dobbiamo guardare, prima che alla tragedia compiuta. Perché la violenza non inizia quando un uomo alza le mani: inizia molto prima, quando alza il diritto a decidere chi sei.

E allora, se è vero che le leggi servono -e servono davvero- è altrettanto vero che da sole non bastano. Senza un cambiamento culturale profondo, continueremo a contare vittime e a commemorare nomi, come se fosse inevitabile.

I divari economici: la violenza dell’inequità salariale

Un altro aspetto della violenza è spesso più subdolo, meno visibile ma altrettanto potente: il divario salariale di genere. Non è solo una questione di numeri; è una questione di autonomia, dignità, libertà reale.

Secondo l’Istat, le retribuzioni orarie medie nelle imprese con almeno 10 dipendenti sono di 15,9 euro per le donne, contro i 16,8 euro per gli uomini. 
Questa disparità si aggrava in certi contesti: per le donne laureate il gap arriva al 16,6%, mentre tra i dirigenti addirittura al 30,8%.
Secondo un’analisi dell’Istat– riferita all’anno 2022 – il divario retributivo lordo annuo si traduce in circa 6.000 euro in meno per le donne: 33.807 euro contro 39.982 euro medi per gli uomini.
Fonti più recenti – come un’indagine de Il Sole 24 Ore / InfoData – ricordano che parte di questo gap è collegato al fatto che le donne lavorano più frequentemente con contratti part-time: nelle imprese con almeno 10 dipendenti, la quota di donne part-time è più che doppia rispetto agli uomini.
Questi numeri non sono astratti: significano che molte donne hanno meno risorse per scegliere, per lasciare situazioni violente, per ricostruirsi una vita.

Ricatti sessuali e molestie: numeri che pesano

Il potere non si manifesta solo con il pugno, ma anche con lo sguardo, con la minaccia silenziosa, con la promessa implicita. I dati Istat relativi al periodo 2022-2023, riportati nel report Le molestie: vittime e contesto, sono inquietanti.

  • Circa 1,895 milioni di donne tra i 15 e i 70 anni (pari al 13,5% di quella fascia d’età) hanno subito almeno una forma di molestia sessuale sul lavoro nel corso della vita.

  • Negli ultimi tre anni prima della rilevazione, il 4,2% delle donne ha dichiarato di aver subito molestie, e nell’ultimo anno il dato è al 2,1%.

  • Le molestie sono più diffuse tra le giovani: nella fascia 15-24 anni arriva al 21,2%.

  • Quanto ai ricatti sessuali (cioè pressioni per un’assunzione, una promozione o per mantenere il posto), le donne che li hanno subiti almeno una volta nel corso della vita sono 298.000 secondo Istat.

  • Negli ultimi tre anni di indagine, circa 65.000 donne (lo 0,5% delle donne lavoratrici) hanno dichiarato di essere state sottoposte a ricatti sessuali.

  • Il fenomeno, pur persistente, sembra in una fase di diminuzione rispetto a rilevazioni precedenti: Istat attribuisce parte di questo miglioramento all’impatto di campagne come il #MeToo e a una maggiore consapevolezza delle forme di protezione legale.

  • Ma la silenziosità rimane drammatica: quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro.

  • E denunciare alle forze dell’ordine è quasi un’eccezione: solo lo 0,7% delle vittime ha fatto questo passo.

Questi numeri raccontano un doppio grado di violenza: non solo l’abuso, ma la vergogna, l’isolamento, la paura di non essere credute o protette.

Luci e ombre dell’equità

Parlare di equità non significa illudersi che il problema sia già risolto: significa riconoscere progressi, ma anche mettere a fuoco le diseguaglianze strutturali che restano.

Luci:

  • Le campagne di sensibilizzazione funzionano: il calo dei ricatti sessuali secondo Istat è un segnale che qualcosa può cambiare, che la parola serve, che la mobilitazione conta.

  • La consapevolezza sociale sembra crescere: sempre più donne reclamano non solo giustizia, ma trasformazioni reali delle dinamiche di potere nel lavoro e nella vita privata.

  • Le politiche (quando ci sono) possono fare la differenza: protezione legale, supporto alle vittime, formazione delle imprese e delle istituzioni sono leve concrete.

Ombre:

  • Il divario salariale rimane ampio, soprattutto in posizioni apicali o qualificate, e non è compensato solo dal part-time: c’è una struttura di disuguaglianza che penalizza il merito femminile.

  • Molte donne non parlano, non denunciano, restano intrappolate nella paura che il costo reputazionale o economico sia troppo alto.

  • Gli strumenti di tutela esistono, ma non sempre vengono attivati o sono percepiti come efficaci. La cultura del silenzio, dell’imbarazzo e del potere continua a operare anche nelle aziende, nei micro-contesti, nella quotidianità.

La forza di chi sopravvive

Ma oggi, più di tutto, penso a chi ce l’ha fatta. Alle donne che hanno trovato il coraggio di denunciare, di lasciare, di ricominciare. A chi vive con cicatrici invisibili che nessuna sentenza potrà cancellare. A chi sceglie ancora la vita e pretende di essere creduta.

E penso anche a chi non è riuscita a salvarsi: non martiri, ma vittime di un sistema che doveva proteggerle e non l’ha fatto. A loro dobbiamo la verità, non la retorica.

Il 25 novembre non dovrebbe chiederci di essere commossi, ma di essere coerenti. Significa educare i bambini al rispetto, gli adulti alla responsabilità, le comunità alla solidarietà. Significa finanziare davvero i centri antiviolenza, formare le forze dell’ordine, strutturare una rete che non lasci nessuna sola nel momento più fragile.

Significa, soprattutto, ascoltare le donne. Credere alle donne. Restituire alle donne la libertà di vivere senza paura.

E significa lottare anche per l’equità economica: ridurre il divario salariale non è un favore, è una giustizia. Garantire che il potere non diventi ricatto è un dovere civico. Costruire un mondo dove il valore di una persona non dipende dal suo genere è l’unica vera rivoluzione.

Quest’anno, vorrei che il 25 novembre non fosse un punto, ma una virgola. Un passaggio, non un epilogo. Perché la violenza non si sconfigge con una Giornata mondiale: si sconfigge con ciò che facciamo il 26, il 27, e tutti i giorni dopo.

Con i dati, con le parole, con le scelte. Con la consapevolezza che il rispetto non è una concessione: è un diritto.