> > Albania, un mito da sfatare tra mare da sogno e caos da incubo

Albania, un mito da sfatare tra mare da sogno e caos da incubo

La nuova frontiera del turismo tra incanto e disillusione

Tra traffico infernale, ecomostri e acque caraibiche, un viaggio dove bellezza e improvvisazione e confusione convivono in imperfetta anarchia.

Chiariamolo subito: l’Albania non era stata una mia idea. Era stata l’IA a suggerirmela come destinazione nel Mediterraneo perfettamente corrispondente ai parametri che le avevo indicato e chiesto di verificare dragando il web per controlli e recensioni: mare cristallino, servizi per le famiglie, strutture attrezzate, trasporti accessibili, prezzi competitivi e siti di interesse storico-culturale.

L’idea era promettente, ma la realtà è un’altra storia.” Appena scendi dal traghetto capisci subito di trovarti in un’altra Europa. File interminabili, controlli rigidi, atmosfera da vecchia Securitate. Poi, due passi fuori, ed ecco il primo impatto da teatro balcanico: un uomo senza divisa – non si capisce chi sia – ti ferma con la mano. Bofonchia in italiano: “Assicurazione”. Scopri così che non tutte le polizze coprono questo Paese. Fin qui nulla di strano. Il problema è il come: un gabbiotto sgangherato, due ragazzi in sandali, un tizio che si avvicina con un rotolo di banconote in mano. “Cinquantacinque euro”, zero spiegazioni. Una specie di tassa d’ingresso non scritta. Benvenuti in Albania.

La strada e il Paese incompiuto

Fuori dal porto di Valona il contorno è quello classico dei Sud dimenticati: traffico disordinato, motorini scassati, vecchie Mercedes (qui una macchina su quattro è del marchio tedesco, spesso con vent’anni di motore sulle spalle) accostate a case mai finite. Camion carichi di angurie arrancano sulle salite, mucche al pascolo occupano l’asfalto con indifferenza.Poi la SH8 si apre come un respiro: colline verdi, la baia di Valona dall’alto, cemento sparso senza ordine, fabbriche e piccole aziende agricole. Ai bordi della strada, cartelli “misra” annunciano pannocchie arrostite.Sulla SH100 il viaggio cambia ritmo. La strada si arrampica tra montagne brulle, vecchie trivelle ferme da decenni, cave abbandonate: carcasse di un socialismo che ha lasciato soltanto rottami. Cumuli di spazzatura lungo il ciglio, ponti poco rassicuranti a Pocem, paesini disassati dove il tempo sembra immobile. Gli occhi si riempiono di pompe di benzina abbandonate con pensiline arrugginite, bar sgangherati, ragazzi che trascinano ciabatte sull’asfalto con lo sguardo fisso sul cellulare. Un paesaggio sporco e struggente in egual misura.

Saranda, città bifronte

Dopo tre ore di viaggio nel nulla, Saranda appare come un sobborgo cresciuto troppo in fretta. Case e negozi ammassati senza ordine, insegne al neon, display luminosi, traffico vorticoso. I cartelli parlano un lessico italo-balcanico che sembra parodia dell’italiano: “Mobileri”, “Gomister”, “Parukeri”, “Pasticeri”, “Pizzeri”. Qui si va in moto senza casco e pure in tre, come da noi qualche decennio fa.Gli albanesi guidano in modo caotico: servono vigili incazzati in mezzo alle strade per dirigere un flusso impossibile. Auto, moto smarmittate, scooter che si infilano tra corsie immaginarie: il traffico è quello di Napoli nell’ora di punta. Ma le stradine restano quelle di un borgo di pescatori: strette, improvvise, con balconi fioriti che si affacciano sul caos.Eppure: bella, Saranda è bella. Divertente e movimentata come un’Ibiza ruspante. Un piccolo gioiello sul mare: acque turchesi, terrazze dei bar piene di turisti e giovani albanesi, chiacchiere e bicchieri che tintinnano sotto il sole e la luna. La movida è travolgente: musica, luci, risate, energia. Ragazze francesi ovunque che aggiungono poesia tra le facce un po’ truci dei residenti. La sera vascelli scintillanti, gonfi di musica dance, salpano lentamente per far festa in mare fino a notte fonda. Per chi cerca più comfort, tre le soste obbligate: il Bar Ristorante Limani, il più suggestivo di Saranda, una piccola penisola di cemento sull’acqua dove il gelato si gusta con il mare che quasi bagna i piedi; la Taverna Laberia, affollatissima per la carne alla brace; il Balcony Restaurant, celebre per le cozze e la vista dall’alto sulla spiaggia centrale. L’aperitivo al tramonto invece si prende al Lekuresi Castle: Saranda sotto, il mare davanti, Corfù all’orizzonte. Un’atmosfera quasi irreale. La città è rumorosa, affamata di modernità, in perenne contraddizione: borgo balcanico e città costiera insieme, caos e vitalità fuse in un’unica ansia di sviluppo. Si capisce che fino a 15-20 anni fa qui era un’altra storia: la fine del comunismo, la crisi finanziaria del ’97 e l’anarchia che ne è seguita avevano lasciato macerie che solo il turismo, esploso come una bolla felice, ha coperto ma mai del tutto. Accanto agli hotel di lusso resistono vecchie case incompiute, spazzatura, degrado, macchine accatastate, mancanza assoluta di regole. Servizi discutibili, una gestione spesso illegale – parcheggiatori abusivi, pochi Pos, ancora meno ricevute – che fa capolino sotto la superficie di normalità. I traffici si indovinano anche dai tanti rapporti che qui ci sono con l’Italia dei clan, di ‘Ndrangheta in primis.Nella parte nuova, il centro è un susseguirsi di bar aperti tutta la notte, ristoranti, chioschi di street food: colpisce che al piano terra non si vedano mai portoni di case ma solo locali e negozi. Segno che tutto è stato costruito negli ultimi anni unicamente in funzione del turismo.Ksamil, perla della riviera albanese, sorprende con acque caraibiche dai toni azzurri e verdi che sembrano una cartolina. Ma i servizi restano da profondo Sud: sabbia buttata sulla terra per creare lidi finto-fighetti, zero organizzazione.E i prezzi? Non proprio stracciati: ben lontani dai cliché dell’Albania low cost. Più simili a quelli dell’Italia pre-inflazione 2022, prima della crisi energetica e della guerra in Ucraina.

Tra mare e confine

Da Saranda verso nord, in barca sotto costa, si scoprono piccole spiagge riservate come Krorhez, con taverne e ombrelloni che pompano musica e alcol, o Gremina, una parete di pietra bianca che si tuffa in un mare trasparente come vetro.A sud, se prosegui verso la Grecia, la strada diventa un ghirigoro d’asfalto che disegna montagne, scende e risale all’improvviso. Dopo una curva lo sguardo si perde: montagne brulle, laghi, macchia mediterranea. Sempre lì, Corfù incombe come scenografia, sorniona e immobile.Ogni tanto spuntano piccoli sobborghi rurali, case sparse, mai veri centri abitati. Lungo la strada uomini, donne, muli, contadini; furgoni Mercedes carichi di corpi stretti come sardine arrancano in salita. I terreni raccontano un’agricoltura di pura sussistenza, campi arsi dal sole e un’economia che non ha più niente da raccontare ma tira solo a campare.Al confine con la Grecia il viaggio si ferma di nuovo. Doppio controllo, file interminabili di auto col motore acceso, pick-up minacciosi di Frontex, perquisizioni a campione nei bagagliai. Ore di attesa che ricordano a noi della “generazione Schengen” quanta fatica ci costi  rinunciare alla libertà di movimento. E quanto sia importante difenderla, sempre, senza mai darla per scontata.

Un mito da sfatare

L’Albania, insomma è, in fondo, un mito da sfatare. Bella, sì, ma non bellissima. Non c’è nulla di davvero unico che giustifichi un viaggio fin qui. Mare, spiagge, paesaggi sono suggestivi, ma non più di una costa calabrese – con meno servizi e certamente meno qualità.Tutto sembra fermo all’Italia degli anni ’90: sviluppo improvvisato e irrazionale (i Piani Regolatori in Albania non sono esattamente una priorità), un’offerta turistica che vive di entusiasmo e abusivismo, una bellezza grezza che non basta a fare il salto.Questa terra è tutta qui: mare da cartolina ed ecomostri di cemento mai finiti a due passi dalla spiaggia, un Paese sospeso tra vecchio e nuovo, improvvisazione e modernità, nostalgia e corsa in avanti. Sporco e struggente, caotico e affascinante, incompiuto ma vivo. Il Sud che vuole diventare Nord a tutti i costi. Ma anche se in testa ha l’Europa, il culo resta sempre in Tunisia.