Vaccini a Rna forse inefficaci per chi ha ricevuto un trapianto

Vaccini a Rna forse inefficaci per chi ha ricevuto un trapianto e quindi è immunodepresso. I risultati della ricerca su Pfizer e Moderna

I vaccini a Rna potrebbero essere inefficaci per chi ha ricevuto un trapianto di organo.

Lo sostiene la ricerca di un team statunitense della John Hopkins dopo 400 test secondo cui le persone che hanno ricevuto un trapianto di organo potrebbero avere una reazione più blanda. Che significa? Che potrebbero non sviluppare una risposta anticorpale adeguata dopo la somministrazione di un vaccino contro il coronavirus. E la ricerca spiega anche di quali vaccini si tratta: di quelli a base di RNA messaggero. Sono esattamente quelli attualmente approvati, cioè il BNT162b2/Tozinameran, sviluppato da Pfizer in collaborazione con la società di biotecnologie tedesca BioNTech.

Poi e l’mRNA-1273 o CX-024414 sviluppato da Moderna Inc., National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) e Biomedical Advanced Research and Development Authority.

Vaccini a Rna inefficaci: quali sono

Insomma, sono i vaccini che circolano in questo periodo, tacciati a volte di inefficacia rispetto alle varianti ma non al target di soggetti riceventi. La ricerca è opera degli scienziati dei dipartimenti di Chirurgia, Medicina e Patologia della Scuola di Medicina dell’Università Johns Hopkins di Baltimora.

A coordinare il team il professor Brian Boyarsky, specialista di Chirurgia presso l’ateneo statunitense. Per giungere ad una conclusione possibilista ma al contempo drastica i ricercatori hanno coinvolto in uno studio oltre 400 trapiantati. Ad essi era stato stato somministrato il vaccino anti covid.

Regole e categorie dello studio

E le regole erano state rigide: inoculazione della prima dose tra il 16 dicembre 2020 e il 5 febbraio 2021.

Poi età media di 55,9 anni. Nel 61% dei casi si trattava di donne e “l’89% era bianco” (fonte Fanpage). In media avevano ricevuto il trapianto di organo da 6,2 anni. Il 52% ha ricevuto una dose di vaccino Pfizer-BioNTech e il restante 48 quello di Moderna-NIAID. I volontari sono stati reclutati sui social network e sottoposti a un prelievo di sangue a domicilio per condurre il cosiddetto “test sierologico”, necessario per verificare la presenza di anticorpi.

I risultati e la scoperta

I risultati sono questi: a una media di 20 giorni dalla somministrazione della singola dose di vaccino, soltanto il 17% presentava anticorpi contro il coronavirus. Vale a dire 76 su 436 partecipanti. I volontari con più probabilità di sviluppare anticorpi erano quelli con un’età inferiore ai 60 anni. Poi chi non assumeva anti-metaboliti per l’immunosoppressione (farmaci necessari per evitare il rigetto) e chi era stato trattato col vaccino di Moderna.

Scopo dello studio era esattamente questo tipo di verifica. Su quale cioè fosse la risposta in termini di anticorpi di soggetti immunocompromessi. E fra i soggetti immunodepressi trapiantati e affetti da patologie autoimmuni sono in pole.

Segev: aggiornare linee guida

Il coautore dello studio Dorry Segev, ha diramato una nota congiunta del team. “Alla luce di queste osservazioni riteniamo che i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie dovrebbero aggiornare le loro nuove linee guida sulla vaccinazione.

Dovrebbero farlo per avvisare che le persone immunocompromesse potrebbero essere ancora suscettibili alla COVID-19 dopo la vaccinazione. E Thomas Pozefsky, direttore dell’ERGOT presso la Scuola di Medicina dell’ateneo di Baltimora, ha aggiunto: “Poiché le linee guida attuali non sono aggiornate, le persone presumono che la vaccinazione significhi immunità”.