C’era quell’odore strano, misto tra carta, penne consumate e sogni che tremavano. Era giugno, ma il caldo sembrava più feroce del solito. I muri della cameretta erano diventati pagine di appunti appiccicati con lo scotch, e ogni angolo raccontava una storia di formule, poeti, guerre e paure.
La notte prima degli esami non è solo una notte: è un rito di passaggio, un confine sottile tra l’adolescenza e tutto ciò che viene dopo.
Chiudere i libri, guardare l’orologio e pensare: “È tardi, ma forse ripasso ancora Dante.”
Poi il silenzio. Quel silenzio denso che non ti lascia dormire, anche se vorresti. La testa piena di date, ma soprattutto di pensieri.
“E se non ricordo niente?”
“E se mi blocco?”
“E se deludo qualcuno?”
Ma c’era anche una strana luce negli occhi. Quella sensazione che qualcosa stesse per finire, e qualcos’altro stava per cominciare. Magari avevi accanto un amico che ti scriveva un messaggio: “Ce la faremo, dai.” Oppure eri solo, a fissare il soffitto con le cuffiette e Venditti in sottofondo: “Notte di lacrime e preghiere, la matematica non sarà mai il mio mestiere…”
La notte prima degli esami è fatta di cuore in gola e mani sudate, ma anche di speranza. Perché dentro ognuno di noi, in quel momento, c’era un ragazzo o una ragazza che non sapeva ancora bene chi sarebbe diventato, ma ci stava provando. Con tutta la forza che aveva.
Ora, se ci pensiamo, quella notte ha il sapore dolce della nostalgia. Forse l’abbiamo dimenticata nei dettagli, ma ce la ricordiamo nei battiti accelerati, nel profumo di caffè all’alba, nello zaino pronto accanto alla porta.
E allora sì, ve la ricordate ancora, vero?
Perché certe notti non passano mai davvero. Restano lì, cucite dentro di noi, a ricordarci che siamo stati fragili, ma anche incredibilmente forti.
A tutti quelli che ci stanno passando ora: non abbiate paura.
E a tutti noi che ci siamo passati: ogni tanto, abbracciamo quel ragazzo o quella ragazza che eravamo. Ce lo meritiamo, perché non è solo questione di studiare. È questione di identità. È lì, in quelle ore piene di adrenalina e insicurezze, che si inizia a intuire chi si sta diventando. Per la prima volta, si affronta una prova che non riguarda solo un voto, ma una forma di autonomia: sei tu, da solo, davanti a un banco, davanti a una commissione, davanti alla tua paura.
Eppure, è anche in quella solitudine che si fa spazio una nuova consapevolezza: che il coraggio non è l’assenza della paura, ma il camminarci dentro. E chi non ha avuto paura, quella notte, forse non l’ha vissuta davvero.
C’è chi la ricorda con l’ansia che gli chiudeva la gola, chi con le lacrime che spuntavano senza volerlo. Ma c’è anche chi, in quell’ultima notte, si è concesso una risata liberatoria, una pizza con gli amici, una telefonata rubata. Una specie di “fermati tempo, perché sta succedendo qualcosa di importante”.
C’erano le madri che camminavano piano per casa, accarezzando con lo sguardo la porta chiusa della stanza dei figli. C’erano i padri che si mettevano la sveglia all’alba per accompagnarli, anche se magari non lo facevano mai. E c’erano i fratelli minori che spiavano in silenzio, senza capire tutto, ma intuendo che quella notte non era come le altre.
C’erano mille modi per viverla, quella notte. Mille piccole storie intrecciate a quella grande narrazione collettiva che chiamiamo “esame di maturità”. Non importava dove fossi, né quanto avessi studiato. In fondo, era la vita che ti stava chiamando. E tu, con tutta la paura e tutta l’incoscienza dei tuoi anni, rispondevi.
Poi arrivava il mattino. Quella luce bianca che sembrava quasi irreale. Il tragitto verso scuola con lo stomaco chiuso, le mani che frugavano nella borsa alla ricerca di una penna, il profumo dell’asfalto bagnato se aveva piovuto. Il portone dell’istituto sembrava più grande, più minaccioso. Ma anche più vero.
E una volta dentro, il cuore correva forte, ma tu eri lì: presente, vivo, con tutto te stesso.
Ora che siamo adulti, o almeno ci proviamo, ci rendiamo conto che quella notte ci ha insegnato qualcosa. Ci ha insegnato che le sfide si affrontano un passo alla volta, che non serve essere perfetti per essere pronti. E soprattutto ci ha ricordato che le emozioni, anche quelle che fanno tremare le gambe, sono parte di ciò che ci rende umani.
Ogni volta che sentiamo parlare di maturità, il pensiero torna lì. A quella stanza in penombra. A quell’ultimo ripasso sotto le coperte con la luce del cellulare. A quella paura che oggi, se potessimo, abbracceremmo con tenerezza.
Perché sì, ce la ricordiamo ancora.
E se ci ascoltiamo bene, da qualche parte dentro di noi c’è ancora quella voce che dice: “Ce la posso fare.”
E oggi, forse, vale ancora.