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Da ex Vicequestore vi racconto cosa si prova quando muore uno dei tuoi agenti

Poliziotti

Dopo la sparatoria a Trieste, in cui sono morti Pierluigi Rotta e Matteo Demenego, un ex Vicequestore racconta cosa si prova quando muore un poliziotto.

Giugno 1981, Questura di Milano-Ufficio di notturna

Cos’era l’ufficio di notturna? Una sorta di pronto soccorso dove, durante la notte, a turno, prestavamo servizio noi commissari più giovani, e meno esperti, con il compito di affrontare eventuali emergenze di facile soluzione, ovvero, in casi più complessi, di informare e far intervenire i colleghi più competenti.

Quella notte era il mio turno. Era da poco trascorsa la mezzanotte quando si presentarono in Questura due genitori: sul loro volto l’espressione della paura e, tra le mani dell’uomo, un foglietto di carta strappato da un quaderno. Senza parlare me lo mostrò. Vi erano vergate, da una mano incerta, poche righe: “non voglio più darvi dispiaceri, non voglio che dobbiate vergognarvi di me. Vi vorrò sempre bene, vogliatemene anche voi! Addio, Elisa”.

Mi raccontarono che, quella sera, Elisa (nome di fantasia), quattordici anni, era stata duramente redarguita per il suo insuccesso scolastico, ma poi, quando tutto sembrava fosse terminato, si affacciarono nella sua cameretta, ma Elisa non c’era e, sul cuscino, quel terribile messaggio.

Allertammo le volanti, demmo loro una foto di Elisa, svegliammo, nel cuore della notte, le amiche ed i compagni di scuola della ragazzina, per sapere se l’avessero vista, se l’avessero sentita, mentre io cercavo di rassicurare i genitori che ce l’avremmo fatta, l’avremmo ritrovata.

Uno squillo del telefono ruppe per un attimo quella tensione. Dall’altro capo del telefono il capo equipaggio di una volante: “Dottore, l’abbiamo trovata. È morta”. Già, Elisa era entrata in un palazzo a caso, dove qualcuno aveva lasciato aperto il portone, era salita lungo le scale, non ricordo fino a quale piano, e si era buttata giù.

Fui preso dall’angoscia, non avrei mai voluto riagganciare quella cornetta del telefono. Come avrei fatto a dire ad un padre ed a una madre che la loro figlia non c’era più? Ma dovetti trovare il coraggio per farlo, e volli accompagnare io stesso i genitori dalla figlia, all’obitorio, per il macabro rito del riconoscimento.

Il mio turno era finito, ma non mi andava di tornare a casa. Dissi all’autista di fermarsi in un bar perché avevo voglia di bere qualcosa, in uno di quei bar di periferia dove, a quell’ora, ci trovi soltanto i protagonisti delle notti milanesi: malviventi e poliziotti, che si concedono una pausa dal loro inarrestabile inseguirsi. Bevvi una birra, forse due. Il mio autista, inferiore a me per grado, ma certamente superiore a me per esperienza, continuava a parlare di quel che era successo. Gli dissi di tacere, ma non lo fece: “Vedrà dottore, ci farà anche lei l’abitudine”.

E così fu! Con la morte, anche con la morta violenta, ci si fa l’abitudine. Almeno così credevo. Sulla scena del crimine tutto diviene routine, rigida applicazione di un protocollo, sempre lo stesso, sempre uguale: il primo intervento degli uomini delle volanti, l’arrivo degli investigatori, il sopralluogo della scientifica e del medico legale. Il cadavere che è lì in terra non ha più nulla di umano, è solamente un oggetto utile alla ricerca di una prova, che poi ci aiuterà a districare la matassa dell’indagine.

E così Elisa divenne uno sbiadito ricordo. Eppure, non sempre è così!

Novembre 1994, Questura di Milano – un ufficio qualsiasi

Continuava a piovere, una pioggia lenta e ostinata: Milano, in autunno, è grigia e umida. Il cortile della Questura, che stavo attraversando per raggiungere il mio ufficio, era percorso da un rivolo d’acqua che man mano s’ingrossava, s’ingrandiva, si espandeva, sino a dividersi in tanti piccoli rivoli diversi, che andavano poi ad appantanarsi, a creare una sola grande pozzanghera, tra le maledizioni e gli improperi di chi avrebbe dovuto attraversala.

La mattina, quel cortile, era pieno di crocicchi di colleghi che, prima di raggiungere i rispettivi uffici, si fermavano a scambiar quattro chiacchiere, forse sul servizio che sarebbe loro toccato quel giorno. Incrociai lo sguardo di Carmelo (nome di fantasia), un poliziotto di mezza età, che non aveva mai perso l’entusiasmo del primo giorno. Lo salutai con un cenno della mano. “Dotto’ – mi disse – finisco la sigaretta e andiamo. Si ricorda, abbiamo quel servizio di prevenzione in zona stazione”. Non avevo ancora girato l’angolo che lo vidi saltar su di un’auto civetta ed andar via. Il cortile della Questura era ormai vuoto: l’orario di servizio era iniziato e poi, quella pioggia che non cessava, di certo non invogliava a restarvi.

Dopo circa una mezz’ora fui distolto da un concitato vociare. Quel cortile, sino ad allora deserto, brulicava di persone che, noncuranti della pioggia che veniva giù sempre più insistente, gridavano e gesticolavano scompostamente. E poi le stridenti sirene di quattro o cinque volanti che, sgommando, si facevano largo tra la folla per poi tuffarsi sulla strada.

Ancora una volta, come dieci anni prima, fu lo squillo del telefono a distogliere il mio sguardo. Era la centrale operativa che mi informava che quell’equipaggio, partito pochi minuti prima su di un’auto civetta, era stato coinvolto in un conflitto a fuoco e che Carmelo, colpito da tre proiettili al petto, non ce l’aveva fatta.

Mi precipitai giù ed entrai in macchina. L’ autista attaccò la sirena e, senza chiedermi nulla, si diresse verso la scena del crimine. Lo fermai e gli dissi di spegnere la sirena. Sulla scena del crimine non ci sarei mai andato, perché il corpo di Carmelo, di colui che, poco prima, innanzi a me, aveva spento la sua ultima sigaretta, non poteva divenire, ai miei occhi, un oggetto da studiare, una fonte di prova.

Gli dissi che saremmo andati dalla moglie di Carmelo. Qualcuno avrebbe dovuto darle la notizia prima che la apprendesse dai telegiornali, e quel qualcuno dovevo essere io. Sentivo di essere anch’io, in qualche modo, l’assassino di Carmelo. Ero stato io a mandarlo a fare quel servizio e Carmelo, come sempre, l’aveva fatto con la consueta, assoluta dedizione. Egli credeva nello Stato e credeva in quella che per lui, più che un mestiere, era una missione. E se io, inconsapevolmente, avessi approfittato di questa sua fede, sino a farlo morire?

Quando mi trovai innanzi alla moglie di Carmelo provai ancora una volta quella stessa terribile disperazione che avevo provato dieci anni prima innanzi al padre ed alla madre di Elisa e capii che l’abitudine alla morte non la si fa mai. Trovai un filo di voce per dirle “Carmelo non c’è più, ma lo Stato, quello stato in cui così fermamente credeva, grazie a lui, c’è”. Non mi rispose, ma lessi nei suoi occhi l’angoscia e il terrore. Non riuscii a dire altro, strinsi i denti, affondai le mani nelle tasche e andai via.

Erano gli anni in cui Fabrizio De André cantava: “Ma lei che lo amava aspettava il ritorno di un soldato vivo. Di un eroe morto che ne farà se accanto, nel letto, le è rimasta la gloria di una medaglia alla memoria”.