> > La crociata di Rampelli contro “the book is on the table”

La crociata di Rampelli contro “the book is on the table”

Fabio Rampelli

E' problema grave a considerare che l’inglese è e resta la lingua del mondo, anche più dell’iconica parlesia della Cina dove gli affari li fanno in inglese.

A fine ottobre del 2021 nell’aula del Parlamento Europeo si consumò un assassinio ed il killer uccise la vittima con efficacia micidiale: “Prosecco is patrimonio of Unesco”. Quell’orrore arrivò dritto sparato dentro sessanta paia di orecchie e fu la fine. Poi, consapevole che non ce l’avrebbe mai fatta, Dino Giarrusso si arrese e rinunciò al suo intervento in difesa del nostro vino frizzante contro un agguerrito e bifolchissimo Prosek ungherese. Giarrusso rinunciò perché era stato invitato a parlare in inglese e Giarrusso stava all’inglese come La Russa sta alla storia, perciò dopo averlo ucciso, l’inglese, lui ne nascose il cadavere dietro un imbarazzato silenzio.

Inutile spiegare che nelle ore successive i social percularono l’allora pentastellato con la foga di chi sta di casa ad Ascott e i primissimi fra i primi furono gli esponenti del centro destra. Ma neanche loro stanno messi benissimo e la storia recente ce lo ricorda. Flashback, dissolvenza e veniamo al 2002. Siamo a Camp David ed al fianco di un allocchito George Bush c’è un raggiante e paffuto Silvio Berlusconi che solenne proclama: “Ai considero il verd fleg of United States nos only a fleg of a country, but an universal message of freedom and democracy”. Al “nos only” scattò l’applauso del Bagaglino, ad Harward ci furono casi di calvizie improvvisa ed alla storia venne consegnato un leader maccheronico a cui vanno auguri sinceri di guarigione ma che non poteva stare al passo con essa. Non poteva starci perché quello del rapporto degli italiani con l’inglese è un problema atavico ed irrisolto.

Rampelli contro “the book is on the table”

Ed è problema grave a considerare che l’inglese è e resta la lingua del mondo, anche più dell’iconica parlesia della Cina dove gli affari li fanno in inglese. Parlarlo è requisito minimo per chiunque volesse costruire un’esistenza che vada oltre il roseto in giardino, sia esso politico, imprenditore o semplice essere umano orientato che non voglia finire come Totò e Peppino a Milano. La bastonata sulla nuca al problema è arrivata però in queste ore da Fabio Rampelli, vice presidente della Camera in quota FdI. Lui invece ha deciso di farsi alfiere di una proposta di legge per scoraggiare l’uso di termini stranieri al posto di quelli italiani e che dovrebbe prevedere sanzioni amministrative a livello aziendale per chi, in enti pubblici e privati, usasse “job’s act” invece di “legge sul lavoro”, ad esempio.

Un “grosso” problema che nasconde il problema vero

Rampelli aveva un problema tutto suo talmente grosso, nell’illustrare la faccenda, che ha perso di vista il problema grossissimo accucciato dietro il primo. Il problema di Rampelli era quello di sconfessare subito la possibilità che la sua idea rievocasse l’autarchia mussoliniana di quando il duce fece la guerra alle “inique sanzioni della Perfida Albione”. In quell’occasione il capo del fascismo incasellò una serie di micidiali cappellate eliminando dal lessico gli anglicismi, solo che lo fece come le ruspe in cantiere e nel furore “iconoclasta” fece cambiare nome anche all’albergo Eden perché ricordava il nome di un ministro britannico. Benitone lo fece dimenticandosi o ignorando che Eden è aramaico e non inglese.

Poi fece cambiar nome ai magazzini Standard che divennero Standa e sostituì l’ottimo e già introvabile caffè con quella ciofeca di miscuglio scioano del carcadè. Insomma, Rampelli si è sbrigato a spiegare che no signori miei, la sua non è autarchia e lo ha fatto con l’urgenza dell’esponente di un partito che di briscole sghembe sul Ventennio ne ha calate già fin troppe. Che gli anglicismi usati oggi siano forse un po’ troppi e troppo in upgrade (visto?) magari è vero, ma il problema resta. Resta perché la battaglia per preservare una lingua è cosa santa solo se si tiene contro del fatto che una lingua non è un monolite ma un fiume con affluenti che attraversa la storia con la mutevolezza delle cose cangianti e plastiche. Resta perché la battaglia per preservare una lingua non può non tener conto del fatto che, ad esempio, l’italiano ha quasi più parole arabe e teutoni di quelle latine e che ogni epoca ha avuto il suo “inglese”. Tanto è vero che Cesare, uno che a Rampelli dovrebbe piacere come la Nutella, nell’attraversare il Rubicone la frase “il dado è tratto” la disse in greco, l’inglese di allora.

L’ideologia e la necessità di farsi capire

Ma l’ortodossia di Rampelli non demorde e lui vuole che l’italiano resti la lingua che parlavano gli italiani della crisi Opec. Italiani che oggi sono popolo di una nazione dell’Unione Europea che si interfaccia con il mondo senza avere lo strumento basilare per farlo: quello con cui ti fai capire, capire bene, in sfumatura e senza equivoci. Per accedere al Pnrr, per ordinare un caffè al bar, per spiegare al tuo parigrado olandese che di furbate sulle politiche migratorie si è stanchi, per dire alla tardona su Facebook che sei sposato o che non vuoi prestiti. O per proclamare ad un’aula che il prosecco italiano non si tocca senza maledire la scuola degli anni 80 che ci mise il francese sotto il grugno manco fossimo il Conte Max che deve fare una canasta con la contessa sulle nevi di Chamonix.

Lo speravamo e lo speriamo ancora tutti, che Rampelli questo lo capisca, e che magari, prima di legiferare provi ad aprirlo, qualcuno di quei “book on the table”. Così, per sfizio, anzi, “en passant”.