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Vertice USA - CINA: per molti analisti e' un G2 di fatto

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Le tensioni valutarie dollaro-yuan, il Tibet, le restrizioni all'esportazione di terre rare e la vendita di armi americane a Taiwan. Questi, con sullo sfondo la difesa dei diritti umani e le opportunità di business, i principali punti di attrito tra Stati Uniti e Cina che oggi Barack Obama e Hu Jin...

Le tensioni valutarie dollaro-yuan, il Tibet, le restrizioni all’esportazione di terre rare e la vendita di armi americane a Taiwan. Questi, con sullo sfondo la difesa dei diritti umani e le opportunità di business, i principali punti di attrito tra Stati Uniti e Cina che oggi Barack Obama e Hu Jintao affronteranno alla Casa Bianca dalle 16 ora italiana.
Vertice che per molti analisti e’ ormai un G2 di fatto: un dialogo tra le due super-potenze mondiali. Hu, giunto ieri sera a Washington per una visita di 4 giorni, ha avuto il privilegio di una cena privata con l’omologo americano accompagnato solo dal segretario di Stato Hillary Clinton e dal Consigliere Per la Sicurezza Nazionale, Tom Donilon.
In questo contesto molti anni fa, si diceva in un gioco di parole, la “Cina è vicina”, questo gioco di vocaboli è diventato sempre più reale e concreto. L’Europa e in particolar modo l’America si vedono sfuggire un immenso bacino di risorse, con la conseguente perdita di gran parte dei mercati finanziari; stanno perdendo progressivamente i rapporti economici con il mondo africano. In questo contesto l’occidente si lascia sfuggire l’inserimento economico-industriale di fronte ad un nuovo interlocutore: la Cina.
Il colosso asiatico, in questi ultimi anni, ha stretto solide alleanze con molti stati africani per sfruttare le enormi risorse presenti nel continente. Molti dittatori e governi si sono stretti in lobby affaristiche escludendo i tradizionali partner occidentali. Nell’ultimo periodo si vedono in costante aumento la presenza di personale cinese nei vari cantieri sparsi in tutta l’Africa, basti pensare che la costruzione della residenza del nuovo presidente della Namibia è stata affidata ad una ditta cinese; nonostante che il progetto sia di costi elevatissimi, la Cina ha effettuato uno sconto e ha contribuito finanziariamente all’impresa e ha inviato una folta delegazione di operai. Si possono effettuare moltissimi esempi citando l’avveniristico aeroporto che è in costruzione ad Algeri, l’elegante complesso di Burma Camp ad Accra nel Ghana e a Kigali, in Ruanda, dove è stata appena consegnata, la nuova sede del ministero degli esteri e la lista potrebbe continuare per molte pagine. Queste opere sono i segni visibili di una nuova potenza che dall’inizio del millennio si sta espandendo in Africa senza dare troppo nell’occhio: la Cina.
Il governo cinese, elargendo sontuosi regali ai vari capi di stato africani, riesce ad ottenere moltissime commesse con accordi commerciali a lungo termine; inoltre gli viene concesso la possibilità di sfruttare le varie risorse minerarie, di gas, di petrolio e contribuire allo sfruttamento agricolo del territorio africano. In una dell’ultime conferenze che si è tenuta a Città del Capo, imperniata sul problema energetico nel continente nero, la carta geografica africana era cosparsa di bandierine rosse cinesi.
Una recente dichiarazione di Cristopher Clapham del Centre for african studies di Cambridge dichiara che “l’invasione della Cina è la novità più importante nelle relazioni estere del continente africano da dopo la fine della guerra fredda”. Il gigante asiatico è affamato di materie prime e sbocchi commerciali per alimentare e dare sempre più forza alla sua rapida crescita. Alcuni osservatori economici e storici affermano che si può parlare a tutti gli effetti di una riedizione della “corsa all’Africa”, vide all’inizi dell’800 l’Europa come maggior protagonista. Oggi c’è una sostanziale differenza, ovvero che è presente un solo unico concorrente: la Cina.
Il colosso asiatico si è affiancato agli Stati Uniti e alla Francia nelle relazioni commerciali nel continente africano; infatti tra il 2000 e il 2009 il volume degli scambi ha raggiunto cifre astronomiche. Sono presenti nel territorio africano oltre mille imprese che fanno ottimi affari con quasi tutti i paesi africani, mentre Pechino ha stretto accordi commerciali bilaterali con la maggior parte dei governi. Il mondo occidentale ha visto di buon occhio questo inserimento commerciale, non rendendosi conto della pericolosità e quindi sottovalutando l’avanzata; quando nel marzo 2005 l’Angola aveva estromesso l’Arabia Saudita come fornitore ufficiale di greggio della Cina, solo in questo frangente gli occidentali si sono accorti che il neo impero Ming aveva siglato convenzioni commerciali con Algeria, Nigeria, Gabon, Sudan e Ciad.
Bisogna sottolineare, come rileva “The Economist”, che oltre un quarto delle importazioni di petrolio cinese proviene dall’Africa. La domanda naturale che viene da fare è questa; come i cinesi si sono inseriti nel contesto economico africano? La risposta è abbastanza semplice, non hanno fatto altro che inserirsi nel vuoto politico ed economico lasciato dagli europei e statunitensi; infatti il post colonialismo non ha fatto altro che indebolire il vecchio continente nei confronti della nuova realtà che stava emergendo, ovvero la Cina.
Inoltre, l’Europa non ha saputo adeguarsi alle richieste dei mercati africani, non capendo le loro necessità e loro desiderio d’inserirsi nel contesto economico mondiale. Molti africani che non fanno parte dell’oligarchie governative guardano con un certo disagio a questa lenta penetrazione asiatica e la considerano a tutti gli effetti un invasione vera e propria. Nei giornali locali, nei forum presenti sul web e così via, si parla di una nuova invasione e arrivano ad usare anche l’espressione yellow masters: ovvero colonialisti gialli.
Nonostante alcune voci dissonanti come il giornalista sportivo Joseph Müller, ha presentato con orgoglio lo stadio nazionale della capitale togolese affermando che “…tutte sciocchezze, questo stadio è un regalo dei cinesi. Sono i nostri veri amici – e continua -. Non ci sfruttano come i francesi. Loro ci aiutano veramente”. Gli accordi strategici stipulati tra le delegazioni sino-africane sono pieni di buoni propositi, sembrano ricalcare gli intenti dell’Unicef. La stampa cinese esalta questi rapporti e si legge sui maggiori quotidiani che si è aperta una “nuova era dalle opportunità illimitate”: i consorzi governativi cinesi definiscono “l’Africa il continente del futuro” e infatti il ministro del commercio ha dichiarato che è da considerare “una delle più importanti aree in via di sviluppo”.
Per la Cina il continente africano è una regione di espansione ideale nella sua marcia verso il ruolo di potenza mondiale per via del vasto territorio, delle risorse smisurate, di un mercato potenziale di oltre 800 milioni di consumatori e infine di una sterminata riserva di manodopera a bassissimo costo. I neocolonialisti si sono messi la maschera di fedeli alleati che aiutano nella cooperazione e lo sviluppo di quei paesi legati al terzo mondo. Infatti, la loro parola d’ordine è “compagni, siamo il più grande paese in via di sviluppo e quindi capiamo le vostre esigenze e le vostre necessità”. Non è un caso che il presidente cinese Hu Jintao, durante in una delle sue recenti visite in Africa, ha evocato la tradizione dell’internazionalismo maoista: “Abbiamo lottato insieme per la libertà e lo faremo anche per il futuro”. Il maggior uomo politico di Pechino ha visitato l’Africa più volte in quest’ultimo ultimo anno, al contrario degli uomini politici occidentali che non hanno mai fatto visita nel continente nero.
In poche parole, il governo di Pechino ha fatto propria una nuova versione del sostegno assicurato all’Africa che era stato stipulato intorno agli anni sessanta, quando aiutavano i giovani stati del continente nella lotta per l’indipendenza. Senza dar troppo clamore l’amministrazione governativa cinese, ne ha dato notizia il “Time”, ha cancellato il debito di 31 paesi alleati e finanziato a fondo perduto la progettazione di molte opere. I vari dittatori africani che si trovano in grave difficoltà per la fine della guerra fredda, di conseguenza hanno perso l’appoggio dei vari paesi occidentali o di quelli facevano parte dell’ ex blocco sovietico, sono stati supportati in tutto e per tutto dai cinesi; quest’ultimi non gli importa di chi governa o come lo svolge il suo ruolo governativo.
Pechino non s’intromette nelle questione interne perché gli alleati africani potrebbero percepire come un ricatto una qualsiasi analisi sulla gestione governativa del paese. Infatti i negoziatori cinesi non avanzano mai richieste sul rispetto delle regole democratiche e dei diritti umani, anche perché questi valori non sono presi in considerazione neanche nel loro paese. L’unica richiesta che viene effettuata ai vari governi africani è quella di non riconoscere Taiwan. “Arrivano dappertutto” come afferma un noto diplomatico tedesco, “non si fanno scrupoli di nulla”. Basti pensare che in Sudan la Cina ostacola con qualsiasi mezzo la risoluzione dell’ONU che potrebbe condannare il regime islamico di Khartoum per la guerra di deportazione nella provincia di Darfur. Denis Tull, esperto di questione africane della fondazione berlinese Wissenschaft und Politik, ha affermato sul maggior settimanale tedesco “Der Spiegel”che “tutta questa solidarietà tra paesi in via di sviluppo è solo una copertura ideologica per i dittatori. Grazie allo loro politica di apertura all’oriente, i politici africani hanno ritrovato uno spazio di manovra”.
L’economia occidentale, in particolar modo i maggiori governi, sta seguendo con estrema attenzione gli sviluppi crescenti di questi rapporti sino-africani. Washington propone una politica più energica, facendo attenzione a non compromettere il rapporto politico con la Cina e soprattutto con l’Africa, protesa a contrastare il colosso cinese.
Mai come in questo periodo si vedono negli aeroporti africani passeggeri cinesi; rappresentanti commerciali, tecnici, diplomatici e infine mercanti d’armi. Si può dire che l’immigrazione cinese funziona a catena; prima arrivano manager e lavoratori con le loro famiglie; dopodiché s’insediano e arrivano i vicini dei loro villaggi fino a ricreare quella atmosfera lasciata alle proprie spalle. The Economist: “il colosso asiatico rappresenta un modello economico per il continente nero. Il successo cinese diventa un’ostacolo per il mondo occidentale per potersi reinserirsi in un discorso economico commerciale; inoltre le materie prime hanno subito un influsso verso il rialzo, di contro si è ridotto quello dei manufatti. L’industria africana perde terreno a vantaggio di miniere e pozzi petroliferi. La forza lavoro è abbondante e a buon mercato che gli ha permesso di realizzare alcune infrastrutture. L’Africa se deve ispirarsi ad un modello, dovrebbe rivolgere i suoi occhi a paesi come il Cile e il Botswana”. La storia sta dando ragione al vecchio colonialismo europeo che aiutava i colonizzati a beneficiare dello sviluppo economico, arrivando a creare delle infrastrutture che gli permettevano di avviarsi ad un processo sociale moderno; inoltre la politica aveva iniziato un percorso di democratizzazione.
Sotto il profilo sociale, il colonialismo veicolò una cultura nuova che è quella di uno sviluppo economico teso a valorizzare la nazione e quindi il popolo in tutta la sua completezza. I cinesi si presentano con un volto umano, con istanze di valorizzazione delle risorse territoriali ma in realtà sono dei predatori che vedono nella regione africana una terra di conquista e dove insediarsi come dei veri e propri padroni.