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Boris Pahor morto a 108 anni: aveva raccontato l'orrore dei lager

Boris Pahor

Boris Pahor era nato nel 1913, sotto l'impero asburgico. Durante l'occupazione tedesca era stato deportato e aveva raccontato l'orrore dei lager.

Boris Pahor, triestino, era nato nel 1013, sotto l’impero asburgico. L’uomo è morto all’età di 108 anni, dopo aver trascorso la vita raccontando l’orrore che aveva vissuto nei lager.

Boris Pahor morto a 108 anni: aveva raccontato l’orrore dei lager

Lo scrittore triestino di nazionalità slovena, Boris Pahor, è scomparso nelle prime ore di lunedì 30 maggio, all’età di 108 anni. Era nato in una regione di frontiera, che sicuramente aveva dei vantaggi, come l’occasione di imparare lingue e culture differenti, ma anche il rischio di sperimentare violenti conflitti. Questa è stata la sua esperienza, che è stata raccontata nei suoi romanzi, in cui raccontava anche l’orrore dei lager. Aveva pagato la sua appartenenza a una minoranza linguistica anche dopo la guerra, in quanto il valore delle sue opere, soprattutto in Italia, era stato riconosciuto con un ritardo davvero incredibile. Il 13 luglio 2020 gli è stata attribuita una doppia onorificenza, italiana e slovena, in occasione dell’incontro tra i capi di Stato dei due Paesi, per la restituzione alla minoranza slava del Narodni Dom, la sua Casa del popolo bruciata a Trieste dai fascisti 100 anni prima. Una sorta di risarcimento tardivo per un uomo che si era sempre opposto agli abusi del potere.

La vita di Boris Pahor

Boris Pahor è nato a Trieste, il 26 agosto 1913, sotto l’Impero austro-ungarico. Si era ritrovato bambino sotto la giurisdizione del Regno d’Italia e nello stesso periodo, come aveva raccontato a La Lettura, era sopravvissuto al flagello dell’influenza detta Spagnola. A nemmeno 7 anni, nel luglio del 1920, aveva assistito al rogo del Narodni Dom triestino, sede delle associazioni slovene, bruciato dagli squadristi del gerarca Francesco Giunta. Subito dopo gli era stata sottratta la lingua madre, perché il fasciscmo aveva chiuso le scuole slava e costretto gli alunni a frequentare quelle italiane. Il padre, impiegato pubblico, aveva perso il posto di lavoro. Boris ha seguito gli studi nel seminario cattolico di Capodistria. Doveva fingersi italiano in pubblico e coltivare la cultura d’origine di nascosto, insieme ad altri giovani. Ha detto addio alla prospettiva del sacerdozio e ha dovuto dedicarsi al servizio militare durante la guerra, prima in Libia e poi in Italia. Dopo il 1943 è tornato a Trieste e ha aderito alla Resistenza, pagata con l’arresto e la deportazione.

Il periodo più tragico della sua vita

Nel 1944 è iniziato il periodo più tragico, con la reclusione in diversi lager in Francia e Germania. Essere un poliglotta gli ha salvato la vita, perché ha ottenuto il compito d’infermiere e ha evitato i lavori più pesanti. Di quei giorni terribili ha scritto nel suo capolavoro Necropoli, pubblicato nel 1967. Un’opera che, nonostante la sua indiscussa eccellenza letteraria, ha dovuto attendere 30 anni per essere tradotta in italiano, nel 1997, e che solo nel 2008 è uscito presso un editore nazionale, Fazi. All’epoca Pahor aveva già 95 anni e l’anno prima aveva ricevuto a Parigi la Legion D’onore. Pahor per lungo tempo non era ben visto in Jugoslavia, in quanto era molto critico verso il regima comunista di Tito. Nel 1975 aveva curato, insieme ad Alojz Rebula, un’intervista uscita a Trieste con il grande poeta sloveno Edvard Kocbek, in cui condannava le pesanti atrocità compiute in Slovenia dai partigiani titini dopo la guerra. Anche in Italia, nonostante i molti onori, compresa la candidatura al Nobel, era rimasto un personaggio scomodo. Nel 2010 aveva rifiutato un riconoscimento nel comune di Trieste, perché nelle motivazioni si citavano le sofferenze da lui subite nei lager nazisti, ma non gli abusi cui aveva dovuto sottostare sotto il regime di Mussolini.