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Omicidio di Lecce, di fronte a un male così radicale la miglior cosa è tacere

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Ci sono delitti, come l'omicidio di Daniele De Santis ed Eleonora Manta a Lecce, che scatenano le analisi sociologiche un tanto al chilo sul “contesto”.

Gli ulivi distrutti dalla Xylella (e che c’entra?). La gloria che fu, quando era un polo del calzaturiero che dava lavoro a centinaia di migliaia di famiglie. Il fatto che non gli piacesse il mare, pur avendolo, e bellissimo, a un tiro di schioppo. La vox populi in base alla quale era un «bravo ragazzo», ancorché «schivo, timido, riservato». Insomma, il solito repertorio del tutto nel nulla. E un paradosso: nel “paese dell’uomo nero”, Casarano, l’uomo nero non lo conosce quasi nessuno.

Ci sono delitti che sfruculiano nel noir cercando nei dettagli psicologismi da strapazzo. E ci sono delitti, come quello di Daniele De Santis ed Eleonora Manta, che scatenano le analisi sociologiche un tanto al chilo sul “contesto”. Dipinto come omertoso, va da sé, con poche occasioni di cultura o di svago, trappola di noia per i giovani millennials. O magari – il filone tira sempre – si tira in ballo la religiosità della famiglia d’origine per evidenziarne la distanza con il crimine commesso. «Da piccolo faceva pure il chierichetto». E giù a menare giudizi. E che c’entra? Nell’umano non c’è nulla di scontato.

C’è un feroce determinismo nel raccontare Casarano, la città di Giovanni Antonio De Marco, anni ventuno, assassino reo confesso di Daniele ed Eleonora a Lecce, dove aveva condiviso saltuariamente una stanza vicino alla stazione. Un determinismo che Casarano non merita. Come se l’orrore fosse (anche) frutto della città dove De Marco è nato e cresciuto. Chi scrive ha amici di Casarano, ha frequentato il liceo classico, conosce molte persone, la vivace vita culturale, l’autunno che ha vissuto negli ultimi anni con il venir meno di numerose realtà industriali e commerciali, una crisi che ha fatto avvitare la città su se stessa ma che ha dimostrato di avere anche gli anticorpi per reagire.

Forse di fronte alla manifestazione di un male così radicale la miglior cosa è tacere. Sappiamo poco o nulla per dire qualcosa di veramente sensato su un delitto che, non dimentichiamolo, ha ancora molte zone d’ombra, a cominciare dal movente. Il nostro codice penale prevede che le prove si formino in aula, quando e se ci sarà un processo, nella dialettica tra accusa e difesa. A giudicare dai palinsesti televisivi strabordanti di notizie, testimonianze, dettagli sembra invece che tutto sia già stato scoperto e chiarito.

De Marco a Casarano tornava saltuariamente, viveva a Lecce, dove studiava e faceva il tirocinio da infermiere all’ospedale Vito Fazzi. Normale, dopo questo delitto, che si passi ai raggi X la sua vita, le sue abitudini, il suo carattere, i rapporti con la coppia uccisa, la città d’origine. Ma non è possibile trarre conclusioni da una foto su Facebook, un fermo immagine postato su Instagram, la dichiarazione, quasi estorta, del vicino di casa che dice era «un bravo ragazzo» non per una sorta di giustificazionismo ma per quello che ha visto, che ne sa. Poco, di solito, se non niente.

Andare a scavare nel “contesto”, traendo conclusioni affrettate, è errato anche per un altro motivo. La famiglia, e ancor più quella “famiglia di famiglie” che talvolta è il vicinato, nei paesi e nelle piccole città di provincia, è qualcosa che si sta sfilacciando sempre di più. Siamo tutti più soli e isolati. Nessuno sa niente di chi gli vive accanto. Non abbiamo tempo per l’altro. E non solo nelle grandi città. Le reti sociali di protezione, cura, aiuto reciproco, rimprovero persino, stanno venendo meno sotto l’incalzare di un cambiamento d’epoca che facciamo ancora fatica a decifrare. Se un vicino di casa afferma che era un «bravo ragazzo, per quanto lo conoscevo» non è giustificazionismo, è l’ammissione di una pura e semplice verità. E non per questo lui e la città meritano di essere annoverati come quelli che difendono l’uomo nero. Il resto è un guazzabuglio complicato: c’è la dialettica tra società e individuo, la distinzione tra condizioni culturali e familiari e il libero arbitrio.

«Ogni creatura umana», ha scritto Javier Marìas nel romanzo Berta Isla, «è destinata a costituire un profondo e segreto mistero per tutte le altre. Una considerazione solenne, quando giungo in una grande città di notte, è che ciascuna di quelle case oscuramente raggruppate racchiude il suo segreto; che ogni stanza racchiude il suo segreto, che ogni cuore che batte nelle centinaia di migliaia di petti che lì si celano è, in alcuni dei suoi pensieri, un segreto per il cuore che gli è più vicino! E c’è in tutto ciò un senso di spavento…». Per sfuggire al quale, nel delitto di Lecce, ci rifugiamo in analisi sociologiche o di psicologia che lasciano il tempo che trovano. “Allo squaiare ta nive”, recita un proverbio salentino. Allo sciogliersi della neve, resta lo sporco, nero, sudicio della vita di tutti i giorni. Avvisate i criminologi di Facebook.