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I malati di Alzheimer e le persone affette da demenza devono pagare la retta delle Rsa?

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I malati di Alzheimer e di demenza senile sono davvero tenuti a pagare la retta di ricovero presso le Rsa pubbliche o convenzionate? C'è da dubitarne.

Gli enti pubblici o le case di cure convenzionate possono far pagare al malato o al parente la retta per il ricovero di una persona affetta dal morbo di Alzheimer o demenza?

Questa la domanda che si pongono i familiari delle persone affette dl morbo di Alzheimer o da demenza, che vengono ricoverate le Residenze sanitarie Assistenziali pubbliche o convenzionate. Di regola, viene fatto sottoscrivere al paziente e al familiare, coniuge o figlio, un impegno a corrispondere mensilmente una retta che si aggira, più o meno, sui 2.000,00 euro.

Vi sono, così famiglie, che per mantenere un anziano malato non riescono a far fronte ai propri bisogni. Di qui il quesito, di cui si diceva.

Il tutto risale ad una famosa sentenza della Suprema Corte (n. 4558 del 22 marzo 2012), la quale, aveva stabilito la retta, quando sono necessarie prestazioni sanitarie, deve essere a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Con l’effetto che il Comune non può rivalersi sul malato o, se questi è nel frattempo deceduto, sui suoi parenti. Ciò, come detto, ad un’unica condizione che il malato necessitasse o necessiti di prestazioni sanitarie Questo sulla base del principio affermato, in linea generale, dalla legge di riforma sanitaria, che prevede la erogazione gratuita delle prestazioni a tutti i cittadini, da parte del Servizio Sanitario Nazionale, entro i livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale (L. n. 833 del 1978, artt. 1, 3, 19, 53 e 63), di per sé ostativa a qualsiasi azione di rivalsa. Dopo questa sentenza ve ne sono state altre, sia della Cassazione che della giurisprudenza di merito, tutte conformi.

Ciò fino a quando non è entrato in vigore D.P.C.M. 14 febbraio 2001, il quale ha posto a carico del SSN solo le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria. È così accaduto che, eccezion fatta per qualche rara pronuncia, i Tribunali hanno quasi sempre escluso che per i malati di Alzheimer e per le persone con demenza senile siano necessarie prestazioni di quel tipo.

Ed ecco la recentissima e importantissima sentenza del Tribunale di Foggia (n. 1153 del 26.9.19) in materia di grave demenza senile, applicabile di conseguenza anche all’Alzheimer, relativamente all’individuazione del soggetto tenuto al pagamento della retta di ricovero presso RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) pubbliche o convenzionate.

La causa aveva ad oggetto l’opposizione ad un decreto ingiuntivo, emesso dal Tribunale di Foggia, chiesto ed ottenuto da una s.r.l in qualità di cessionaria della Congregazione delle Ancelle della Divina Provvidenza in amministrazione Straordinaria, portante intimazione di pagamento della somma di €. 5.513,68, oltre interessi legali e spese.

Si trattava delle rette di ricovero del padre dell’opponente, affetto da demenza senile di grado elevato, al pagamento delle quali il figlio si era impegnato, sia quale amministratore di sostegno che in proprio. Il medesimo si era, allora, rivolto al Giudice Tutelare e aveva chiesto a quest’ultimo l’autorizzazione ad agire in giudizio per il padre.

Per il Tribunale le prestazioni ricevute in RSA si qualificano come socio-sanitarie integrate e sono regolate dall’art. 3 d.lgd. che effettua una distinzione tra:

  • le prestazioni sociali a rilevanza sociale;
  • le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria;
  • le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sociale;

E per quel giudice il D.P.C.M. 14 febbraio 2001 avrebbe ulteriormente specificato che le prime sarebbero di competenza e a carico delle ASL, le seconde dei comuni con la compartecipazione di spesa da parte degli utenti, le terze, invece, del Fondo Sanitario nazionale. E quelle “rese a favore di soggetti affetti da patologia di Alzheimer in grave stato di avanzamento e quelle che attengono prevalentemente alle aree anziani (inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative disabili, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e farmaci) rientrano in questa terza categoria, caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica ed intensità della componente sanitaria.”

Secondo il Tribunale, non è, infatti, dubitabile che le cure prestate alle persone affette da quelle patologie, comportino la preminenza dell’aspetto sanitario sui quello assistenziale, in quanto l’assenza di un continuo ed assiduo monitoraggio assistenziale metterebbe a rischio le condizioni di vita e di sopravvivenza del paziente.

E così, dopo questa sentenza e un’altra del Tribunale di Monza (n. 617/17 pubblicata l’1.3.17), che l’ha preceduta qualche anno fa, può dirsi con tranquillità che:

  1. Perché nulla sia dovuto è sufficiente che la persona ricoverata sia affetta da una forma di demenza;
  2. Non è necessario che il soggetto sia ricoverato in una clinica; può trattarsi anche di una struttura diversa, purché per la Suprema Corte “secondo le disposizioni di cui alla legge n. 833 del 1978, deve considerarsi sanitaria ogni struttura che tenda al mantenimento e al recupero della salute del malato. La struttura di inserimento del malato, anche se di tipo residenziale, non appare pertanto elemento determinante per la classificazione delle prestazioni come meramente assistenziali ovvero sanitarie”;
  3. È peraltro indispensabile che il ricoverato abbia bisogno di “prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria”.

In merito a tale ultimo rilievo deve ricordarsi che, come già si è detto, per Tribunale di Foggia, come per quello di Monza prima di lui, le persone affette da queste forme in stato avanzato o, comunque, di particolare gravità, hanno sempre bisogno di questo tipo di prestazioni

Quanto fin qui esposto sarebbe più che sufficiente se in materia non si fosse recentissimamente pronunciata la Corte d’appello di Milano con sentenza in data 27 maggio 2019. Con questa sentenza quel giudice è andato oltre, affermando che occorre prendere le mosse da una lettura della norma contenuta nell’art. 30, secondo comma, l. n. 730/83, per cui “sono a carico del fondo sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse a quelle socio-assistenziali.”

Disposizione, questa, sempre per la Corte “conforme non soltanto al tenore letterale della stessa disposizione, bensì ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, in linea con l’art. 32 della Carta fondamentale, nel senso di ritenere che gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali sono a carico del fondo sanitario nazionale. Sicché, laddove, oltre alle prestazioni socio assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività deve essere considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto, di pertinenza del Servizio sanitario nazionale. Non vi è dubbio, poi, che tra i casi di rilievo sanitario deve farsi rientrare anche quello relativo alle spese derivanti non da una mera attività di sorveglianza e di assistenza, bensì da un trattamento farmacologico somministrato, in struttura residenziale protetta, in favore di soggetto affetto da grave patologia psichiatrica cronica. Restano quindi escluse dal totale carico del servizio sanitario soltanto quelle ipotesi, residuali, in cui siano somministrate prestazioni di carattere esclusivamente assistenziale.

Insomma, nel caso in cui le prestazioni di natura sanitaria non possano essere eseguite se non congiuntamente con l’attività socio assistenziale, sicché non sia possibile discernere il rispetto onere economico, prevale in ogni caso la natura sanitaria del servizio, rispetto alla quale le altre prestazioni debbono ritenersi avvinte alle une dal nesso di strumentalità necessaria, essendo dirette a consentire la cura della salute dell’assistito, e, dunque, la complessiva prestazione dev’essere erogata a titolo gratuito.

Sulla base di tali rilievi può dirsi con una certa sicurezza che, quando siano necessarie prestazioni sanitarie – e le stesse sono sempre necessarie per i malati di Alzheimer e per le persone affette da demenza in stato avanzato -, la retta di ricovero non è a carico del paziente, ma de sistema sanitario, che è oggi regionale.

E se i familiari si sono impegnati per lui con una dichiarazione scritta, tale obbligo è nullo, se non altro perché privo di causa: non ci si può obbligare a versare ciò che non è dovuto!

Per quanto attiene a ciò che si è già pagato, i relativi importi potranno essere chiesti in restituzione all’ente che lo ha ricevuti. Quest’ultimo potrà poi farsi garantire dal vero obbligato, ossia il Servizio Sanitario.

Non basta.

Per massima chiarezza deve ricordarsi che in materia si è, pronunciato anche il Tribunale di Firenze (Trib. Firenze sentenza n. 1010/18), affermando che siamo in questi casi di fronte ad un servizio pubblico, che esclude la ricorrenza di un contratto di diritto privato. Tenuto al pagamento della retta non sono, per l’effetto, il ricoverato o i suoi familiari, ma al 50% il Servizio Sanitario Regionale e per il residuo 50% il Comune.

Nello stesso senso anche il Tribunale di Roma con sentenza pronunciata in udienza il 13.6.18. Tale giudice ha condannato la AUSL della capitale alla restituzione delle rette pagate per un malato di Alzheimer. Si deduce dalla stessa che anche le U.S.L. sono tenute alla corresponsione della retta, trattandosi di spese sanitarie o, comunque, parzialmente tali.

Come si vede vi è ancora confusione in merito a chi debba pagare la retta. Ma un punto è fuori discussione: non certo i malati e chi si è obbligato per loro.