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Giuseppe Culicchia: "Ne 'Il tempo di vivere con te' racconto un terrorista al di là dei luoghi comuni"

giuseppe culicchia il tempo di vivere con te

"Il tempo di vivere con te" è una lunga lettera che Giuseppe Culicchia scrive al cugino Walter Alasia, brigatista rosso ucciso il 15 dicembre 1976.

I tempi della vita non sono quelli della scrittura, verrebbe da dire leggendo l’ultimo bellissimo libro di Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te (Mondadori, pagg. 168, euro 17) che riporta alla memoria uno dei più tragici eventi degli anni di piombo, l’uccisione del brigatista rosso Walter Alasia, cugino dello scrittore. Era il 15 dicembre 1976 e in una sparatoria presso l’abitazione dei genitori a Sesto San Giovanni Walter Alasia fece fuoco uccidendoli su Sergio Bazzega, maresciallo dell’antiterrorismo ed il vicequestore di Sesto San Giovanni Vittorio Padovani, per venire a sua volta ucciso nel tentativo di fuga.

C’è un’anacronia persistente in questa vicenda che riporta a un passato che sembra in perfetta discontinuità con il presente. Intanto perché Giuseppe Culicchia aveva 9 anni di meno di Walter e quando muore, a 20 anni, era un undicenne che nutriva per il cugino quella venerazione e fascinazione che spesso i bambini dimostrano verso i ragazzi più grandi. Ma poi l’anacronia continua perché l’occasione per raccontare questa storia non sembra mai arrivare, quel «tempo di vivere con te» del titolo che richiama una delle canzoni più belle di Lucio Battisti di quegli anni, I giardini di marzo. E quando Culicchia lo dà alle stampe è il solo libro che poteva uscire dalla sua penna e dai suoi ricordi: un inevitabile e sofferto viaggio a ritroso nei territori dell’infanzia, alle estati di gioco e spensieratezza nella casa di Grosso Canavese dove Walter che lo raggiungeva d’estate.

Non uno dei tantissimi memoir che oggi il mercato editoriale propina in abbondanza, ma il tentativo – mai compiuto – di capire nella maturità che cosa ha rappresentato quel fatto drammatico e, allo stesso tempo, un viaggio alle radici di quel dolore, che ha segnato la successiva produzione narrativa dello scrittore. Confessa Culicchia nelle pagine iniziali: “È per raccontare la tua storia che ho cominciato a scrivere, il giorno dopo la tua morte. È per questo che ho continuato a farlo in tutto questo tempo. Eccolo qua, il primo libro che avrei voluto scrivere”.

Culicchia, il tempo di vivere con te

«Doveva passare del tempo, perché serviva la distanza giusta dal momento in cui Walter è stato ucciso» esordisce Giuseppe Culicchia raggiunto telefonicamente da Affaritaliani. «Poi mi sono reso conto che era arrivato il momento di affrontare questa storia, perché c’era stato un processo di maturazione da parte mia e avevo ritrovato un equilibrio tra ricordi di bambino e l’adulto di oggi. Walter, in effetti, allora era per me era un adulto, anche se quando è morto aveva solo 20 anni. Ho cercato per anni di trovare il tono giusto, già le mie primissime pagine erano un tentativo di scrivere questa storia. Poi mi sono reso conto che l’unico modo che avevo per scriverla era rivolgermi a Walter con il tu, una lunga lettera che è poi diventata un libro. Come dice il titolo: è il mio modo per tornare a vivere con lui».

Lei a un certo punto scrive: “E perché morire a vent’anni, Walter? Perché uccidere per poi venire ucciso? Non è vero che il tempo aiuta. Il tempo non guarisce le ferite. Il tempo è un grande bastardo, perché porta via tutto con sé. Tutto tranne l’amore. È per questo che il dolore non passa”. Forse nasce dall’amore l’esigenza di scrivere una storia rimasta sospesa?

«Avevo la sensazione che fosse accaduto qualcosa di inspiegabile. Né io, né la mia famiglia potevamo sospettare che Walter fosse entrato nella lotta armata. Nel libro ho cercato non di giustificare, ma di capire perché un ragazzo avesse aderito alle Br e nel suo tragico epilogo con la polizia avesse sparato per primo. E l’unica risposta che sono riuscito a darmi è che sentiva profondamente l’ingiustizia. Quando c’è stata la bomba a Piazza Fontana Walter aveva 17 anni. C’era l’ipocrisia di chiamare eventi come questi “stragi di stato”. Walter era figlio di due operai nella città satellite di Sesto San Giovanni, la mamma messa in un reparto punitivo della APSA, gruppo Pirelli, perché aveva partecipato a una dimostrazione contro il cottimo, i valori della resistenza erano stati traditi… Gli anni di piombo rappresentano una continuazione a bassa intensità della guerra civile del 1943-45. Era figlio di due genitori comunisti e comunista anche lui, idealista illuso, sognatore, vedeva la rivoluzione dietro l’angolo. Ma l’Italia non è un paese da rivoluzioni…»

C’è stata una intensa fioritura di narrativa e memorialistica sul terrorismo dalla seconda metà degli anni ’80. Ultimamente, una scrittrice esordiente anche lei torinese, Marta Baroni, con Città sommersa è stata candidata allo Strega. Come si colloca il suo libro in questo filone?

«Credo che il mio sia un libro diverso da quanto letto fin qui. Mi interessava raccontare le persone al di là degli schematismi, i luoghi comuni. Il terrorista è semplicemente visto come un mostro, a me interessava provare a raccontare chi era davvero Walter, la sua figura che è stata totalmente dimenticata. Al di là della memorialistica dell’epoca e delle vittime, come Mario Calabresi o Benedetta Tobagi, volevo fra emergere anche il dolore vissuto da chi era contro lo Stato, la visione dalla parte degli sconfitti. Perché c’è stato anche quel dolore. Sono stati anni pieni di oscurità, di buchi neri, di misteri, su tutti il caso Moro, buco nero nella storia della repubblica, poi Ustica, Falcone e Borsellino…»

Forse l’Italia perde la sua innocenza con le stragi, chiamate appunto “di stato”, come piazza Fontana… «L’Italia non perde l’innocenza con piazza Fontana: non c’è mai stata. È un paese che non vuole guardarsi allo specchio perché ci si sono verità indicibili. Pasolini diceva che si fa fatica a spiegarlo a un adolescente. Per le nuove generazioni i terroristi sono l’Isis, i fondamentalisti islamici. Non possono concepire che ci siano mandanti oscuri dietro le stragi».

Che cosa ci insegna ancora oggi la storia degli anni 70 e di personaggi come Walter Alasia? «In occasione della prima presentazione online del libro una libraia era rimasta colpita dal fatto che Alasia era un ragazzo di 20 anni che voleva cambiare il mondo: oggi è inconcepibile. Ma quegli anni ci hanno anche insegnato che con la violenza non lo si cambia».