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Dai maltrattamenti all'adozione, la storia di Manuela: "Non si adotta per fare del bene né per essere bravi"

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Adottata a soli tre anni, Manuela ha a sua volta adottato due bambini e racconta la sua storia a Notizie.it.

Essere adottati è qualcosa che cambia la vita per sempre, che segna una traccia tra un prima e un dopo nell’esistenza. Scegliere di adottare non è un retorico atto di amore e di coraggio ma una scelta che si sente a pelle, un desiderio bruciante nel cuore, una certezza che non puoi ignorare, ma anche un percorso spesso reso difficile dalla burocrazia. Lo sa bene Manuela, oggi donna e madre, adottata all’età di soli 2 anni dopo una prima fase di vita fatta di maltrattamenti e abbandono e che a sua volta è madre, adottiva, di due bambini, che oggi hanno 11 e 13 anni.

Manuela, tu sei stata adottata quando eri molto piccola. Ricordi cos’è successo quel giorno?

Io sono stata adottata che avevo circa 2 anni e mezzo. Ricordo che sono venuti a prendermi mia mamma e mio papà. Io mi trovavo in una sorta di cascina affidata ad alcune persone [oggi i bambini non si trovano più in condizioni simili e non possono più essere rintracciati dai genitori biologici, ndr]. Di quel giorno ricordo mia mamma che si è chinata verso di me e mi ha chiesto se volessi andare con lei, io le ho detto “come mamma?” e lei ha risposto sì, e io “allora vengo”. Ricordo anche di aver pensato, quel giorno, “non credevo che avrei avuto dei genitori” perché nei due anni passati, da che avevo memoria, avevo sempre pensato “non so perché ma io sono nata per essere senza una mamma e un papà”. Quando ho visto arrivare mio padre, biondo con gli occhi azzurri, ho pensato che fosse arrivato il principe delle favole. Pensavo che non fosse possibile che quelle due persone bellissime davvero volessero diventare i miei genitori. Ricordo anche che quando mia mamma mi ha chiamato per nome è stata la prima volta che qualcuno ha pronunciato il mio nome. Prima non ce n’era motivo, io semplicemente non esistevo.

Hai ricordi prima dell’adozione?

Purtroppo tanti pensano che a quell’età non si ricordi nulla: non è vero. Non ricordi quando hai un’infanzia tranquilla. Quando succedono cose che non augureresti a nessuno, quando gli adulti sono pericolosi, quando vieni maltrattato, quando non ti danno da mangiare quanto dovresti, quando invece di dormire in una cameretta dormi in un’aia all’aperto, queste cose non le dimentichi più, sono come un marchio sulla pelle. Quindi sì, ricordo molte cose dei miei primi due anni. Le ho “dimenticate” per tanto tempo, per tutto il tempo che mi era necessario per poter essere una bambina serena e spensierata. Quando sono cresciuta ho preso quei ricordi e ci ho lavorato sopra perché era l’unico modo per dargli un posto.

Dopo quel primo incontro, sei subito andata a casa con i tuo genitori?

No, non mi hanno portata via da lì subito. Ricordo che mia madre mi ha detto di aspettarla che andava a prepararmi la cameretta e io mi sono fidata, ci ho creduto, non so come ho fatto. Non era una cosa scontata, è molto difficile che i bambini in stato di abbandono si fidino degli adulti perché sono già stati traditi più volte, quindi fidarti di un adulto è una scommessa che non hai più voglia di fare. Credo che la differenza l’abbia fatta la forza della convinzione che io ho sentito in mia mamma e questo mi ha fatto pensare che potevo rischiare.

Nel periodo dell’attesa, com’è stato?

Ho aspettato pochissimo, solo una settimana, che per un bambino è proprio poco. Ora capita che i bambini debbano aspettare anche mesi. Una settimana è un tempo talmente breve che neanche me ne sono accorta, anche per la sicurezza che sentivo. Me ne sono ricordata quando siamo partiti per la Colombia, quel senso di sicurezza era stato tutto per me, ed è quello che ho trasmesso anche io ai miei due figli da subito. Dicevo in ogni cosa: “Io sono la mamma, ci sono io. Tu sei un bambino, stai tranquillo”. Manifestavo tranquillità anche quando mi sentivo imbranata, perché, in mezzo a mille dubbi, di una cosa ero sicura, di essere la loro mamma, che è l’unica certezza che serve Se è questo che passa, per un bambino cambia tutto. La certezza di essere genitore passa a pelle, e permette ai bambini di affidarsi, oltre la paura, oltre il dolore. Se non si sente questa certezza non si va da nessuna parte. Spesso i genitori adottivi, pensando di accogliere e rispettare i tempi del bambino, vanno per gradi, sembrano camminare sulle uova, “aspettano” a fare i genitori. Ma il bambino che li vede, non capisce, non vede rispetto e accoglienza ma vede la conferma della sua paura: pensa che quella mamma non sia convinta di essere la sua mamma e tutto diventa difficile..

Perché tu hai scelto di adottare?

Questa cosa del sentirsi mamma è qualcosa che non si sceglie, lo sai e basta: senti che il tuo progetto di vita, quello che tu sei veramente, è essere madre, anche se effettivamente un figlio che ti dica “sì, sei una mamma” non c’è. Allora scegliere l’adozione è naturale nel momento in cui ci sono mille ragioni per cui un figlio non arriva per quella che è considerata la via più semplice ma che è semplicemente una via, una delle tante. Può sembrare assurdo ma se pensassimo davvero da dove nasce l’idea di essere madre risponderemmo tutte “nel cuore” e chissà quanti dubbi in meno, quanto dolore e senso di mancanza di incompletezza in meno si sperimenterebbe potendo sentirsi libere di dire chissà come arriverà mio figlio, dalla pancia, in adozione… Per me è stato così. Per motivi di salute non avrei mai potuto affrontare una gravidanza, o meglio, avrei potuto ma con un altissimo rischio per me e per i miei figli. Quindi per me e mio marito è stato assolutamente naturale dire: adottiamo. Sognavo di essere madre, non necessariamente di avere la pancia. Quando mi dicono “hai adottato per restituire qualcosa” oppure “ah, che brava, che bella cosa che hai fatto” io sinceramente mi arrabbio, è assurdo ed è una cosa brutta da dire e da sentire, non lo avrei mai fatto per questo. Innanzitutto, perché non credo di dover restituire niente a nessuno, sicuramente non alla società che mi ha dato la possibilità di essere figlia, né ai miei genitori perché loro hanno realizzato con me il loro sogno se mai. Poi perché non si adotta per fare del bene, né per essere bravi, non è la motivazione giusta, non fosse altro che i figli lo sentono: e loro vogliono altro, vogliono essere figli, vogliono sentire un amore incondizionato, vogliono sapere di non dover restituire nulla, di non dover dire grazie per essere stati scelti, di avere la libertà di rispondere male, di potersi allontanare dai genitori un milione di volte con la certezza che i genitori saranno sempre lì, la sicurezza di potersi arrabbiare. Devono persino avere la libertà di dire “non sono così sicuro di essere tuo figlio, ho paura” e sentirsi dire, tranquillo, va bene, io però sono sicura, sono tua madre. Se la motivazione è fare del bene si sente a pelle che non sei madre, c’è poco da fare.

Come ti sei sentita a diventare mamma?

Diventare mamma è stato un momento che definirei assurdo. Ero felice, tantissimo, ma ero talmente concentrata su quello che dovevo fare per i miei figli che mi sembrava di essere in una bolla, ero come bloccata concentrata su come farli sentire tranquilli, come rendere questo un momento bello per loro. Le mie emozioni sono passate in secondo piano, forse le ho vissute tutte prima, la notte prima di incontrarli. Nel momento in cui sono diventata mamma sono rimasta folgorata dal sorriso di mio figlio e dal muso lungo di mia figlia più piccola, erano belli da non credere. Ma devo dire che mi sono sentita mamma il giorno che ho visto le loro foto. Allora li aspettavo già da 5 anni.

Ci racconti come funziona l’adozione?

Si aspetta tanto tempo. C’è tempo per capire, per fare progetti, per immaginare cosa farai per poi divertirti a scoprire che è tutto diverso. L’adozione è un percorso lungo. Si presenta una domanda in tribunale in cui si dà una disponibilità per l’adozione nazionale e/o internazionale. Secondo me è una cosa molto bella e molto vera questo termine “disponibilità”: l’adozione non è un tuo diritto né prevede per forza che tu arrivi alla fine del percorso. Non è quello il modo in cui ti devi approcciare. Tu sei disponibile. Dopo la domanda in tribunale vieni contattato dagli assistenti sociali e dagli psicologi, si fanno alcuni incontri – singoli e di coppia – in cui si parla del proprio cammino, di come si è diventati adulti, del proprio percorso di coppia, del motivo per cui si desidera un figlio e perché in adozione. Vengono fatte domande su cosa ci aspettiamo, sull’età dei bambini, sulla disponibilità all’handicap, sulla disponibilità ad accogliere fratelli e sul motivo per cui desideriamo più di un bambino, su quelle che pensiamo essere le nostre risorse come genitori. Poi si fa un colloquio con un giudice che fa domande – se si è data disponibilità all’adozione internazionale – soprattutto sulla differente etnia che avranno i nostri figli, per capire il nostro pensiero (io nemmeno capivo la domanda), su quali crediamo che saranno le peculiarità e le difficoltà legate all’adozione internazionale. Si attende il decreto di idoneità e intanto si cerca un Ente che ci possa dare una mano nel Paese scelto, un Ente che un po’ ci somigli e ci accompagni e poi, tecnicamente, si da mandato, ovvero si firma un contratto che li autorizza ad operare in nome nostro all’estero. A quel punto comincia l’attesa.

Come si “sopravvive” a questa attesa così frustrante?

Molti definiscono questa attesa frustrante ma questo presuppone che l’attesa ti privi di qualcosa che è tuo. E’ umano e giusto soffrire per il tempo che passa con lunghi silenzi, aspettare è difficile e a tratti doloroso. Bisogna però capire che questo è il tuo progetto di vita ma non è tutta la tua vita. Non bisogna fare dell’adozione l’unico pensiero che hai, anche perché altrimenti si caricano i figli di talmente tante aspettative da rischiare di schiacciarli quando arriveranno. Per me il pensiero vero era “un altro giorno senza proteggervi, resistete ragazzi, arrivo”. Così ogni sera mandavo un bacio e una carezza, per loro era ora di merenda. E’ stato tenero quando mio figlio mi ha detto “sai mamma, non sapevo di chi era, ma io quella carezza la sentivo”. Non siamo noi ad aspettare, sono loro, noi dobbiamo coltivare l’entusiasmo per arrivare sorridenti, pieni d stupore e gratitudine e non pieni di cose già scelte e cose mancate che ci fanno male.

Durante i colloqui con psicologi e assistenti sociali si tenta di fare “bella figura”. C’è qualcosa che avresti voluto chiedere ma che non hai fatto per paura?

Ah io niente, ho chiesto tutto, detto tutto. Il problema però è effettivamente che le coppie pensano di dover rispondere a determinati criteri e si preparano a dare la versione migliore di sé, rispondendo a domande e aspettative e dimenticando di esprimere se stessi E’ importante raccontare di noi con sincerità, semplicemente però tenendo presente che non stiamo facendo sedute di analisi, che a loro non interessa conoscere ogni nostro aspetto, ma chi siamo in relazione al nostro voler essere genitori. Gli assistenti sociali non cercano il genitore perfetto o quello con una salute d’acciaio, né i soldi o una casa grande. Cercano, al massimo, una casa accogliente, dove i bambini possano fare disordine e dove ci sia spazio per loro, soprattutto dentro i genitori.

Quanto ha influito la tua condizione fisica?

Io sono sì portatore di handicap – ho una paralisi cerebrale, una forma di epilessia, in totale controllo, ed alcuni problemi ortopedici – ma ciò che importa ai servizi sociali non è quali sono i tuoi limiti fisici, che è ovvio che ho, ma che il tuo handicap non sia ingombrante nella tua vita. Ho risposto ai loro dubbi, legittimi, ho spiegato come vivo il mio handicap, e ho detto la verità, che mi sento normale anche perché con i miei limiti so fare i conti. Ho risposto alle domande sul mio passato, che certo non è facile, e ho cercato di comunicare che lo avevo risolto, avevo dato un posto a ogni cosa. Questo conta. Per essere mamma devi sempre essere disponibile per i tuoi figli, non puoi essere piegata su di te e sul tuo dolore, anche emotivo. Devi spiegare agli assistenti sociali che tu hai un handicap ma non sei la tua malattia, la tua vita non gira intorno a questo.

Cosa non funziona dell’adozione in Italia oggi?

Credo che quella sull’adozione in Italia in fondo non sia una cattiva legge. Prevede che i genitori si preparino, che prendano l’entusiasmo iniziale, lo misurino con la realtà e lo trasformino in certezza. Forse andrebbe riempito di più il tempo dell’attesa che diventa spesso un tempo vuoto. Io ho fatto dei corsi, sono andata a convegni, ho incontrato persone che hanno adottato e che sono state adottate… ma l’ho scelto io, non viene chiesto alle coppie, al massimo proposto. Invece bisognerebbe accompagnarle di più (in fondo anche nei 9 mesi di gravidanza si fanno corsi per prepararsi al parto, no?) perché serve conoscere, fare domande, anche semplicemente sentire di non essere “dei marziani”, di non essere soli. Invece l’unica cosa che viene ripetuta sempre è di ricordare spesso a tuo figlio che viene da un’adozione, anche quando magari il bambino non è pronto a questa ripetizione costante. Perché quello che a noi ricorda un momento di gioia – l’adozione, appunto – per lui è il ricordo di un abbandono, di cui noi spesso non sappiamo neppure poi molto.

Però significa anche ricordargli le sue radici.

Non sono così sicura i geni non dicono niente di noi, anche se la società dice il contrario. I miei figli sono nati in Colombia ma io non posso crescerli con un piede in Italia e uno in Colombia. Noi siamo italiani entrambi, loro per questo non saranno mai italo-colombiani, anche se la Colombia è splendida. Le loro origini sono qui: dentro di me, dentro mio marito, dentro la nostra famiglia e dentro loro stessi. Ogni persona ha dentro di sé una parte che appartiene solo a lei. Un giorno, con tutto il bagaglio di ciò che sono e di ciò che hanno vissuto, i miei figli metteranno radici dove vorranno, perché avranno radici salde in loro stessi.

I servizi sociali sono molto attenti a dirci di non rompere il legame con il Paese d’origine, capisco i loro motivi, ma vorrei che pensassero con attenzione con cosa dovrebbero avere un legame questi bambini, la loro origine è spesso un ricordo di paura, solitudine, pericolo, mancanza. Perché e con cosa devono sentire per forza un legame? Nel dire questo noi spesso non sappiamo neppure bene con cosa stiamo dicendo a nostro figlio che deve sentirsi legato. Ma lui sì. Magari con botte, fame, violenze abusi? Queste non sono le sue radici, questa è una condanna. Crescerlo convinto di essere per forza legato a tutto questo uccide in lui la speranza e lo fa crescere prigioniero.

Il giorno dell’adozione si apre un nuovo capitolo, anzi, si inizia a scrivere un diario completamente nuovo in cui, finalmente, il bambino è figlio, cosa che prima non era mai stato, e deve sentire di avere l’incredibile, folle, pazzesca possibilità di ricominciare, da zero, senza quel peso enorme, con cui farà i conti quando potrà. Per un bambino abbandonato è un sogno fatto tante volte che, magicamente, si avvera, una cosa così …senza parole per dirlo, da far fatica a crederci. E’ una libertà assurda. Legare necessariamente tra loro questi due diari insieme può dare un senso di lacerazione, di non sentirsi al proprio posto né là né qui. Può togliere quella speranza bellissima di poter avere un’altra vita, vera, stavolta. Non si fa certo finta che l’adozione non ci sia stata non si nega e non si nasconde nulla. Magari vuol dire festeggiare il giorno dell’adozione come un secondo compleanno, come ha scelto di fare mia madre, come facciamo noi, per trasmettere la gioia e in quel caso raccontare i nostri primi giorni insieme, spiando l’effetto che fa. Le domande verranno, e verranno i ricordi, prima di quanto si pensi, se noi, pur senza insistere in discorsi, comunichiamo che c’è ascolto e non ci sono tabu o cose non dette e da non dire, che essere adottati è una cosa normale che in famiglia ognuno po’ essere se stesso e con mamma e papà si può parlare di tutto senza paura o vergogna, (quindi anche dell’adozione), in tutte le famiglie è così, no? dovrebbe.

A proposito di radici, hai più rivisto la tua madre biologica? Che sentimenti provi per lei oggi?

Io non ho un buon ricordo di quella che tutti chiamano la mia madre biologica e che io per anni ho chiamato semplicemente “lei”, perché darle un nome mi sembrava troppo. Per me lei è stata una persona difficile, pericolosa, che non mi considerava una persona, al massimo mi sentivo come un cappotto, una borsa, un qualcosa che può essere usato e poi abbandonato un po’ come vuoi. Non ho alcun ricordo positivo di lei, solo una sensazione di pericolo, di abbandono, di noncuranza, di disprezzo nei miei confronti. Lei è un’assenza, l’ho odiata a lungo, quando mi serviva per scaricare la rabbia che avevo dentro, ora posso dire di non odiarla. Non sento di dover cercare una risposta al perché lei si è comportata come ha fatto, non penso che incontrarla e farle delle domande possa darmi qualcosa, sapere perché ha avuto comportamenti lesivi nei miei confronti o perché è stata ingombrante cercando di ricontattarmi in vari momenti della mia vita, non spiega qualcosa di me. Lei è lei, io sono io. Le somiglio fisicamente? E se fosse? Le nostre radici vere nascono da noi stessi e dai rapporti che costruiamo con le persone che incontriamo. Ci sono persone che scelgono di perdonare, e credo che ognuno deve trovare la via che lo rende sereno io forse sono troppo dura ma non la perdono, perché sono convinta che ciascuno di noi deve vivere con la responsabilità di ciò che ha fatto, se la perdonassi lei si scaricherebbe da queste responsabilità, sinceramente, anche no.