> > Cara Daniela, quelle sono donne che ci hanno solo partorito

Cara Daniela, quelle sono donne che ci hanno solo partorito

editoriale-giulio-cavalli

Sono stato adottato all’età di Daniela, a cui dopo 30 anni la madre naturale si rifiuta di salvare la vita. Ma scrivere di quella donna “madre” è un azzardo.

Ci sono stato giorni interi a scorticarmi il cervello pensando alla storia di Daniela, la donna quarantasettenne di Como che attraversa una grave malattia e ha dovuto scartabellare la sua infanzia per chiedere alla made che l’aveva abbandonata da bambina di cedere, anche in modo anonimo, una provetta di sangue che le avrebbe permesso di tentare una cura sperimentale. La donna si è rifiutata, Daniela è stata abbandonata per la seconda volta.

La prima volta di Daniela è stata il 26 marzo del 1973 all’orfanotrofio delle suore di Rebbio, nel comasco, dove si è ritrovata subito sola, ha vissuto i primi anni della sua vita da abbandonata per poi essere adottata. Come può una madre essere così crudele con la figlia e negarle un aiuto anche dopo tanti anni?, si chiedono tutti. La vicenda è finita sui giornali, è stata masticata da decine di opinioni e come al solito ci hanno ricamato sopra un po’ di drammaticissima poesia.

Ci si è dimenticati di un aspetto fondamentale: quella non è sua madre, no, quella è una signora che l’ha partorita e ha pensato di avere messo tutte le carte a posto (la donna aveva chiesto l’anonimato e aveva chiesto il ritiro della documentazione sanitaria) per il disbrigo delle pratiche di questa figlia ceduta al resto del mondo. Perfino scrivere di quella donna “madre” è un azzardo letterario che corrisponde solo a un evento biologico senza niente intorno. Ci sono parti effimeri come tagli, giusto il tempo di rimarginarsi e non hanno polpa intorno. Va un po’ diversamente per certi figli che quella sensazione di essere di origine ignota non riescono a disinfettarla. Possono provare a scavalcarla ma poi ritorna, da uno spiffero o dall’altro, oppure da una malattia come nel caso di Daniela. Ci si scontra ancora ma è come andare a visitare un buco con cui alla fine hai fatto amicizia.

Sono stato adottato più o meno all’età di Daniela, sono stato abbandonato in un orfanotrofio milanese, viale Piceno e ho l’unta sensazione di leggere tutta questa storia con opinioni in cui manca sempre un pezzo. La “mamma” non ha dimensioni e proporzioni definite da sentire comune e nemmeno dal buonsenso, la mamma che si legge sui libri di scuola e che si racconta nelle conversazioni frequenti non è l’unica mamma possibile. Le famiglie no, non sono tutte uguali.

La storia di Daniela da Como non è la storia di una figlia che ritrova la madre: è la strada pelosa di chi deve andare a bussare per questioni gravi alla porta di chi ha certificato, firmando di suo pugno, di volere (e potere) fare a meno di te. Non ci sono madri e figli, ci sono persone che si sono incrociate per qualche ora, il tempo che una espellesse l’altra e il tempo di ripiegare un corredo minimo come dote per andare da soli per il mondo. Ci son estranei che hanno gli stessi cromosomi e che sono sconosciuti certificati.

Ho cercato la signora che mi ha appoggiato sulla strada per anni, mica per trovarla solo per cercarla, avete presente il bisogno di cercare per rimettere insieme un passato che è una brutta sbriciolatura su una brutta tovaglia, una caccia solo per il gusto di vestirsi sapendo bene che non si avrebbe mai il coraggio di mettere il dito sul grilletto, Maria Roberta Gatti si chiama la mia donna, l’ultima volta che avevo cercato degli indizi come un povero indagatore ossessionato sapevo che stava a Medicina, vicino a Bologna, strapiena di altri figli e quelli chissà perché invece se li era tenuti e scrivere con stonata vendetta queste parole è tutto quello che so della mia prima infanzia.

Negli anni ho ritrovato anche un fratello che non ho nemmeno il coraggio di chiamare, ci penso ora che lo sto scrivendo qui, sono mesi che non ho il coraggio di fare quella telefonata che gli avevo promesso “tra qualche giorno” che sono diventati mesi. Ci sono famiglie che stanno sui certificati sotto sbianchettature che non si riescono a togliere nemmeno con le unghie. Mi ero in messo in testa di andare a trovarla e poi mi sono detto che non avrei niente da dire, niente da ascoltare, niente di niente. Mi sono detto che per fortuna non ne ho mai avuto bisogno, intendo un bisogno vero, qualcosa che non sia l’egoista bisogno di riempire un buco che non ha nessun fondo.

A Daniela è successo, di avere bisogno, e ha scoperto che dentro al cuore ci sono anche scogli. Ha chiesto di essere adottata alla donna che l’ha resa orfana. Quella è stata quella che è sempre stata. È una storia che finisce sui giornali per il pessimo finale ma è feroce esattamente con è iniziata. Forse. Non è venuto nemmeno un pezzo chiaro, pensandoci bene, perché non c’è niente di più patetico dei figli che cercano fili rossi che non sono mai esistiti.